Gli alpini nella storia d’Italia (4 puntata)

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    Dalla neve alla sabbia africana

    Ironia della sorte. O meglio, paradossi della politica italiana, che con il ministero della Guerra prepara una guerra difensiva sulle Alpi e con il ministero degli Esteri decide un’offensiva nel caldo torrido dell’Africa. Sta di fatto che le compagnie alpine, costituite per difendere i valichi del Cenisio e del San Bernardo, hanno il loro battesimo del fuoco nel 1896 durante la guerra di conquista coloniale d’Etiopia: circa mille uomini al comando del tenente colonnello Davide Menini (costituenti il 1º battaglione alpino d’Africa ), partecipano alla spedizione e sono impiegati nella battaglia di Adua del 1º marzo.

    Si tratta di una delle pagine più negative della storia militare italiana: deficitario nei rifornimenti e nella logistica, privo persino di cartine aggiornate del territorio, il Corpo di spedizione italiano sottovaluta l’esercito del negus Menelik e subisce una clamorosa sconfitta, con le colonne che avanzano verso Adua perdendo i collegamenti tra loro ed esponendosi agli attacchi etiopi. Privi di coordinamento, i reparti del Regio Esercito, dopo una resistenza disperata, crollano e si abbandonano ad una ritirata disastrosa, lasciando sul terreno 5mila morti, 3mila prigionieri e alcune migliaia di feriti.

    Il battaglione alpino del tenente colonnello Menini, inizialmente assegnato alla riserva, viene impiegato frazionato quando le sorti della battaglia sono ormai segnate e i rinforzi possono solo servire a ritardare di qualche ora la disfatta. I commentatori militari riconoscono l’impegno e il coraggio del reparto, ma i risultati sono drammatici: non ci sono dati complessivi sulle perdite, però si sa che su 20 ufficiali alpini impiegati, ben 9 cadono sul campo. È il primo tributo (e non sarà l’ultimo!) che gli alpini pagano agli errori della classe dirigente. Il secondo impegno militare si sviluppa in un altro scenario estraneo alla vocazione degli alpini: le oasi del deserto libico, in pieno Sahara, durante la guerra italo turca del 1911/’12.

    La Campagna coloniale voluta da Giovanni Giolitti ha esito favorevole, ma le condizioni in cui le truppe operano sono estreme: il caldo, i movimenti su piste appena tracciate, la guerriglia delle popolazioni nomadi, la mancanza di rifornimenti. Gli alpini, che partecipano all’impresa con 13 batterie da montagna e 10 battaglioni (Saluzzo, Edolo, Susa, Tolmezzo, Verona, Mondovì, Fenestrelle, Ivrea, Vestone, Feltre), non vengono impiegati come unità autonoma, bensì aggregati a reparti di fanteria, con i quali partecipano a tutti i combattimenti più significativi, da Ain Zara (4 dicembre 1911) a Sidi Said (26 28 giugno 1912) a Zuara (luglio 1912). Conclusa la pace nell’ottobre 1912, alcuni reggimenti vengono rimpatriati, mentre le forze rimanenti sono riunite nell’8º reggimento Alpini speciale , comandato dal colonnello Antonio Cantore, che nel 1913/’14 viene impiegato nelle operazioni di occupazione dell’entroterra tripolino.

    Spedizioni africane a parte, il Corpo degli Alpini cresce nel corso dei decenni che intercorrono tra la sua costituzione e la prima guerra mondiale. Le quindici compagnie iniziali, nel 1878 sono diventate trentasei e nel 1882 settantadue, inquadrate in sei reggimenti, per un totale di 45mila uomini mobilitabili in caso di guerra. Nel 1887 viene istituito un settimo reggimento, e un ottavo nel 1908 (quando l’apertura della linea ferroviaria del Sempione impone maggiori esigenze difensive nella Valle d’Ossola).

    All’evoluzione organica si accompagna un progressivo adeguamento delle uniformi e dell’armamento, studiati in rapporto alle particolari esigenze operative del Corpo: le scarpe basse della fanteria sono sostituite da scarponi alti allacciati, il cappotto a lunghe falde lascia il posto ad una giubba color scuro con paramani a punta, compare una mantellina alla bersagliera per ripararsi dal vento freddo.

    L’elemento caratterizzante è tuttavia il cappello alla calabrese con la penna nera, adottato sin dal 1873. È curioso il fatto che inizialmente i comandanti dei reparti, poi denominati battaglioni, non portavano il cappello, come se non scarpinassero abbastanza per meritare tanto onore. Quando viene concesso anche a loro il cappello, lo ornano con una penna bianca d’oca, anziché quella nera d’aquila o di corvo. Dopo il 1880 la penna bianca rimane distintivo degli ufficiali superiori.

    Sul piano addestrativo, la novità più importante (anche per i suoi sviluppi futuri al di fuori dell’ambito militare) è l’adozione degli sci. L’iniziativa è del tenente Luciano Roiti, amico di quell’ingegner Kind, torinese d’adozione, che per primo aveva introdotto in Italia l’uso dello sci. Nel gennaio 1897 il tenente Roiti attraversa con due amici il contrafforte che separa la Valle di Susa dalla Val Sangone, in provincia di Torino.

    Come scrive con entusiasmo L’Esercito Italiano , su una neve alta più di tre metri, fresca e leggerissima, incapace di sostenere un uomo anche provvisto di racchette, gli sci tracciano un solco profondo appena 25 30 centimetri . Ce n’è abbastanza per passare dalla sperimentazione individuale alle esercitazioni di gruppo: durante le escursioni invernali di quell’anno, alcuni alpini del 3º reggimento fanno le prime attraversate, da Finestrelle a Susa attraverso il colle delle Finestre, dall’ospizio del Moncenisio al colle di Sollieres, dal Gran Serin a Cesana lungo la cresta dell’Assietta.

    Il successo di queste prime prove porta all’organizzazione di specifici campi di istruzione a livello di compagnia, con l’assunzione di istruttori svizzeri e norvegesi che sui declivi di Bardonecchia, del Sestriere, di Claviere insegnano le tecniche fondamentali di discesa. Là dove oggi ci sono gli impianti della Via Lattea e dove nel 2006 si sono svolte le Olimpiadi della neve, sono stati dunque gli alpini a fare da precursori, calzando ai piedi sci rudimentali in legno di frassino, larghi 9 cm nella parte anteriore, 8 cm nella parte centrale e 7 cm nella parte posteriore, con uno spessore variante da 1 a 3 cm e una lunghezza non superiore a m 2,20 .

    Fissati al piede con un apparecchio formato da una staffa posterio re e da una staffa superiore citiamo sempre da L’Esercito Italiano e completati da un bastone generalmente di bambù con punta di ferro , gli sci di questi pionieri pesano da 4 a 6 kg e richiedono un tirocinio continuativo di un paio di settimane per imparare a controllarli con sufficiente disinvoltura .

    Le fonti non ci aiutano, ma una domanda sorge spontanea: nonostante la perizia degli alpini, quante fratture e quante contusioni hanno provocato queste prime esercitazioni, con attacchi improponibili e in assenza di piste battute?Non si sa ma, probabilmente, meno di quanto si potrebbe pensare, perchè nell’arco di poco tempo gli sci conquistano un posto stabile nell’equipaggiamento degli alpini. Con un decreto del 25 novembre 1902, il ministro della Guerra generale Giuseppe Ottolenghi ordina infatti l’impiego dello sci in tutti i sette reggimenti di penne nere. (4 continua)

    Gianni Oliva

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