“Ferro, fuoco e sangue!”, a Vicenza

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Le immagini fotografiche e gli oggetti che le accompagnano, collocati negli ambienti ipogei di Palazzo Chiericati, sono in stretto rapporto con lo spazio espositivo, che qui diventa scena ed è coinvolto come componente stessa del lavoro artistico. La mostra è un percorso nelle profondità della guerra, e gli ambienti come strumenti narrativi ed evocativi aiutano a conferire all’esposizione un aspetto “teatrale”.
I pannelli fotografici, non solo dunque s’inscrivono nello spazio, ma ricavano senso proprio dal rispetto dell’ambito particolare in cui sono esposti.

I pochi oggetti presenti, impiegati per richiamare scenograficamente situazioni di trincea, benché scelti per la loro potenzialità estetica e memoriale, vengono impoveriti di tale valenza in quanto solo parti di un discorso, che mediante l’espressione fotografica intende rappresentare il quadro storico della trincea e del campo di battaglia della prima guerra mondiale.

Attraverso le fotografie di Giuliano Francesconi la mostra ci parla di paura, di fame, di sete, di freddo, degli orrori vissuti da milioni di uomini scaraventati in prima linea a scoprire un mondo severo e ignoto.

Un numero altissimo di coloro che scrissero della propria esistenza di guerra, descrisse la “terra di nessuno” come l’immagine più paurosa, incombente e ossessionante. Il termine “terra di nessuno” riesce a rendere l’esperienza di essere oltre i confini della vita, posti fra il noto e l’ignoto, al limite fra il conosciuto e il misterioso. Il “non luogo” per definizione, dove tutto poteva accadere e tutto appariva estraneo e ostile. Ma i primi nemici furono la fame e la sete. Nemici forse più subdoli degli stessi eserciti.

Per i milioni di soldati in trincea anche il mangiare e il bere divennero esperienze drammatiche, in un contesto di vincoli imposti sia dallo spazio minimale ed estremamente precario, sia dalle esigenze di sopravvivenza e lavoro di un mondo oscuro e di distruzione. Ben presto però fu evidente a tutti che peggio della fame era la sete. Il rifornimento idrico delle trincee fu forse il più grande problema affrontato dagli eserciti nella logistica dei rifornimenti.

I racconti dei soldati ci riportano cosa significasse aver sete in trincea: disperati che si dissetavano con l’acqua di raffreddamento delle mitragliatrici e quella dei radiatori delle trattrici, oppure orinavano in un recipiente pieno di sassi e sabbia sperando che quei materiali bastassero a filtrare e a ottenere un liquido potabile.

Eppure la Grande Guerra fu un conflitto che, per la prima volta, vide trasformati in campi di battaglia luoghi da sempre ritenuti inaccessibili, e che mai si sarebbe pensato potessero diventare luoghi di scontro: le montagne. Per quarantun mesi e 3 terribili inverni il conflitto scaraventò migliaia di uomini sul fronte alpino e dolomitico.

Dallo Stelvio alla Marmolada, dall’Ortles al Pasubio, passando per l’Adamello, dall’Ortigara alle Tofane, dal Cristallo al monte Nero attraverso le Alpi Carniche; sui 650 km di creste, ghiacciai, cenge e altipiani si combatté una guerra singolare che trasformò completamente i fattori della lotta e richiese principalmente, anziché il numero dei combattenti, la qualità e il loro assoluto valore.

E come nelle grandi catastrofi cosmiche, la scenografia delle battaglie nella Grande Guerra si distingueva per l’intensità delle distruzioni, il fragore delle esplosioni, le vampe delle fiamme, l’oppressione delle nubi di gas.

Usati per la prima volta nell’aprile del 1915 dai tedeschi sul fronte occidentale, i gas asfissianti segnano l’inizio della guerra chimica moderna.

Era il 22 aprile. Quella sera, nei pressi di Langemarck, nel saliente di Ypres in Belgio, i tedeschi aprirono 4.000 bombole contenenti 168 tonnellate di cloro e ne diressero il getto verso due divisioni francesi e una divisione canadese, dislocate su un fronte di 6 chilometri.

L’effetto fu devastante. Migliaia di uomini caddero in stato comatoso o in agonia e i campi delle Fiandre furono cosparsi di cadaveri di soldati sterminati come mosche.

I campi della Grande Guerra erano perennemente avvolti dalla nebbia della confusione. Raramente i soldati sapevano cosa stesse accadendo attorno a loro.

Le immagini proposte nell’esposizione di Palazzo Chiericati vogliono rappresentare una sfida artistica alle crudeltà di quella guerra, perchè la memoria, che ha indelebilmente marchiato i luoghi teatro del conflitto, ha continuamente bisogno di essere rielaborata e trasmessa; anche dagli artisti, dalla loro passione e dal loro bisogno di ricordare.

Mauro Passarin

La locandina »

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