Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    Il Vajont mai dimenticato

    9 ottobre 1963: un monte, una diga, un lago, una frana, interi paesi spazzati via, quasi 2000 vittime il Vajont.
    Io, quel maledetto 9 ottobre di quarant’anni fa, dovevo ancora nascere. Per diversi anni non ne ho saputo nulla poi, una domenica avrò avuto otto anni ero in gita in montagna dalle parti di Belluno, dove il papà prestò servizio militare come sottufficiale alpino.
    Strana gita: mio padre non parlava, sembrava chiuso in un suo mondo. All’improvviso, dopo una curva, una diga e una domanda: Ma papà perché hanno costruito una diga qua, se non c’è l’acqua? . Nessuna risposta, solo due occhi vitrei gonfi di lacrime. Non chiesi altro.
    Più tardi, dopo molte insistenze, mio padre mi raccontò la storia del Vajont: che il monte era franato, che la terra era finita nel lago e che l’acqua aveva saltato la diga ed era andata nel Piave e che c’era stato anche lui lì, a dare una mano. Col tempo capii che le sue lacrime non erano per la frana ma per tutto quello che aveva visto, per tutte le vittime recuperate scavando nel fango, per le bare allineate e poi seppellite a Fortogna, in quello che lui definisce il mio cimitero .
    Mio padre era, anzi è uno delle migliaia di soccorritori del Vajont. Lui ed i suoi commilitoni hanno visto cose inimmaginabili, che tuttora non trovano il coraggio di raccontare ma che non riescono a dimenticare.
    Il Vajont sono anche loro, sono i tanti Lino, Livio, Nello, Natale, Sebastiano, Toni, Enea… che hanno seppellito i morti, ma che hanno anche aiutato, confortato ed assistito i vivi.
    Mi auguro che i sopravvissuti, la gente comune non si dimentichino di loro perchè loro, i soccorritori, non hanno dimenticato. Anno dopo anno ritornano lassù, quasi in pellegrinaggio, con la famiglia o gli amici; anno dopo anno riescono a raccontare qualcosa in più, a liberarsi un po’ di quel dolore che li ha oppressi per tanti anni; anno dopo anno, invece di dimenticare, ricordano con maggiore vivezza quei giorni della loro giovinezza.
    Dedicato al mio babbo ed ai suoi amici.

    Alessandra Perini Udine

    Confronto e scontro di culture

    Sono sposato e padre di due figli, da più di dieci anni diacono della chiesa cattolica, aiuto due sacerdoti con la collaborazione di tutta la famiglia. Ho portato la penna nera per 15 mesi dal febbraio 1967 all'aprile 1968 come esploratore del battaglione Susa a Pinerolo.
    Ho letto oggi con piacere l'editoriale del numero di settembre e non posso che confermare la mia stima. Occorre veramente che i nostri orizzonti crollino, che siano superati, dobbiamo andare oltre i muri delle divisioni. Come non ricordare che circa 2000 anni fa, quando lo Spirito Santo scese su un gruppo impaurito di discepoli e alcune donne (forse persino più coraggiose), scese per tutti e non solo per loro! Ricorda infatti l'evangelista Luca nei suoi Atti che vi erano Parti, Elamiti…, tutti presenti a Gerusalemme. Le genti dunque oltrepassavano anche allora i confini e scambiavano cultura, commercio, amicizia, aiuto.
    Bene fate dunque a toccare i nervi scoperti di una società troppo edonistica e ripiegata sul portafoglio e su se stessa. L'integralismo è una malattia e se qualcuno (troppi) viene contagiato bisogna curarlo con amore ben sapendo che tale malattia può colpire anche noi stessi.
    Il vero progresso si misura con la capacità e la sapienza del confronto sereno, franco, arricchente.
    L'identità di ognuno, messa a disposizione di tutti, diventa inesauribile ricchezza. Aiutiamo almeno i giovani ad accogliere questa affermazione e affidiamo loro l'impegno, visto che noi non ne siamo stati molto capaci, di viverlo e testimoniarlo ai quattro angoli del mondo. Avremo così più coraggio e migliori uomini pubblici (ce ne sono) che non temeranno la diversità di religione, di razza, di provenienza, di censo.
    L'accoglienza e la solidarietà di cui si parla nell'articolo di apertura saranno così motivo di unione e non di rifiuto dell'altro o di perdita di identità e tradizione; saranno incontro e non dispersione; saranno cammino gli uni accanto agli altri nella consapevolezza che solo così combatteremo insieme la battaglia, speriamo e vogliamo sempre incruenta, della pace.

    Enrico Berardo Villar Perosa (Torino)

    Alpino militare, alpino uomo

    Credo che purtroppo il modello dell’alpino militare abbia perso buona parte del suo richiamo sui giovani. Occorre, io penso, puntare sull'alpino uomo quale testimone di valori. Sono infatti i valori come ha detto l’allora presidente Beppe Parazzini, a rendere speciale la nostra associazione, e sono i valori che dobbiamo sfruttare come elemento di aggregazione tra i giovani, che rappresentano un universo estremamente frammentato.
    Dovremo dare più visibilità al ‘Libro Verde’, portarlo nelle scuole, nell’associazionismo giovanile, in tutte quelle realtà dove sia possibile mostrare che i nostri sono valori non solo predicati, ma testimoniati in concreto. Nei nostri valori si devono poter riconoscere tutti i giovani che lo vogliano, ciascuno deve poter trovare spazio con la propria nota distintiva, dal desiderio di pace alla ricerca di equilibri internazionali più equi, dalla fede alla tutela dell'ambiente. Il tutto senza la pretesa utopistica di cambiare il mondo, ma con l'offerta di una chiave di lettura per impostare la propria vita secondo questi valori. Apriamo alle giovani: se l'ha fatto l'istituzione militare lo possiamo fare anche noi. Il nostro scopo non è un supplemento di esercito ma una finalità sociale, e credo che le ragazze possano portare un contributo importante su ambiente, contatto con la popolazione e assistenza ai soggetti in difficoltà. Apriamo agli italiani all'estero, a quanti possano voler rinsaldare il rapporto con la Patria lontana condividendo un'esperienza al servizio degli altri, che insegni la difesa del territorio, ma soprattutto a diventare membri responsabili della società. Si obietterà che la realizzazione di un tale programma all'estero prevede difficoltà enormi. È vero, ma i nostri soci fuori dal Paese hanno uno stimolo in più: la consapevolezza di essere gli ultimi e di dover difendere il loro modello di vita anche più di noi che possiamo esportare il nostro modello di uomini liberi, o­nesti, laboriosi e responsabili.
    Visto che, fortunatamente, c'è ancora tanto di buono, cerchiamo di valorizzarlo. Almeno, proviamoci!

    Matteo Navoni Como