Un nuovo Gruppo Alpini. A Bucarest

    0
    187

    Inutile chiedersi perché nasce un gruppo alpini in un paese dell’Est europeo. La nostalgia del cappello alpino è forte almeno come quella della casa, degli amici, del bar sport dove ci si sfoga con le tifoserie avverse. Se poi ci mettiamo di mezzo i soliti Agostino Nerotto, giramondo saltuariamente domiciliato a Bassano, o Pontarollo, pendolare tra il Canal del Brenta e la bella città di Sibiu (RO), o don Graziano Colombo, casualmente di Seregno ma di stanza in qualsiasi parte del globo dove la Provvidenza lo vuole, oppure una squadra di amiconi raccattati tra le sezioni di Udine e Palmanova, da quindici anni soliti a passare le ferie a Bucarest, ma non solo, per costruire un ospizio destinato ad accogliere vecchi in difficoltà, il quadro si fa chiaro.

     

    Manca solo il tocco finale dato da Claudio Minuzzo, imprenditore nel ramo dei mobili in stile e arredamenti di lusso, che, preso al laccio quasi per sbaglio, è finito per far parte della banda e si è trovato senza tanti complimenti eletto capogruppo. Ora ha la bicicletta e pedala. A quanto sembra anche bene.

    Il 29 marzo, presso la signorile, spaziosa struttura realizzata dalla Congregazione di don Orione, piccolo Cottolengo rumeno a Voluntari, sembrava di essere a metà strada tra il Veneto e il Friuli. Ognuno parlava come mamma aveva insegnato e d’italiano si sarebbero sentiti solo i moccoli se la sacralità del luogo non li avesse banditi.

    Chi, come i bassanesi, armeggiava in un’ampia cucina con caprioli, capretti e altre delicatezze culinarie per tenere alto l’onore della regione, chi come i friulani si aggirava sofferente fino a quando qualcuno dei padri non trovava un armadio da spostare o prospettava un lavoro da iniziare, non importa dove, purché lontano dall’Italia.

    Chissà perché! E la sera, ormai tutti riuniti, visto che nel frattempo erano arrivati per la Sede Nazionale il consigliere, nonché delegato ai contatti con le sezioni all’estero, Ornello Capannolo, il direttore de L’Alpino Vittorio Brunello, la signora Elisabetta Redaelli, con il fratello Michele, marito e cognata, invitata a fare la madrina del gagliardetto in quanto figlia del capitano Piero Redaelli, reduce di Russia del Valchiese, ascoltata la messa, grande serata attorno al tavolo per sperimentare se i cuochi erano all’altezza per il pranzo del giorno dopo.

    Ad onorare la tavolata era presente anche il console d’Italia, signora Gabriella Gambacurta, che con classe e garbo ha dimostrato di apprezzare il menù e la scelta dei vini, rasserenando in tal modo il nostro chef e il neocapogruppo. La mattina del 30 appuntamento alla chiesa cattolica retta dai padri della Congregazione don Orione, tappezzata per l’occasione da striscioni inneggianti agli alpini, all’Italia, alla Romania e al gruppo nascente.

    La messa celebrata da don Graziano, affiancato dal superiore don Valentino Giacomelli, cappello alpino piantato in testa per tutta la celebrazione del sacro rito in barba alle disposizioni della libretta, con la sola eccezione della consacrazione, testimonianza del suo servizio da artigliere da montagna prestato a Silandro, aspirante capopezzo poi declassato a servizi meno nobili, ha avuto i momenti più toccanti con l’omelia del celebrante che ha saputo interpretare in maniera semplice e sentita l’essenza dell’alpinità, letta come gratuità del dono agli altri.

    Breve cerimonia di benedizione del gagliardetto, parole commosse del consigliere Capannolo e canto del Signore delle Cime . Nella bella chiesa, restituita al culto dopo lunghi anni di utilizzo improprio, la comunità alpina e quella cristiana si sono sentite affratellate nel bisogno di essere di aiuto al prossimo e di ricordare quelli che sono andati avanti nel fiore della giovinezza.

    Dopo un lungo peregrinare per la città, presidiata come fosse in stato d’assedio per l’attesa dei Grandi della Nato, sosta al Cimitero Militare Italiano Ghemcea, affiancato da quello rumeno, dove giacciono 2.500 soldati italiani, prigionieri di guerra, morti quasi tutti tra il mese di maggio e quello d’agosto del 18, probabilmente di febbre spagnola.

    La numerosa delegazione italiana, formata oltre che da tanti alpini, dai gagliardetti di Palmanova e Bassano, anche dall’ambasciatore d’Italia, dottor Daniele Mancini, accompagnato dalla consorte signora Anna Rita De Luca, dal console Gabriella Gambacurta, dall’addetto militare gen. Giuseppe Santangelo, ufficiali italiani e personale dell’ambasciata, era attesa da due picchetti in alta uniforme di soldati di montagna delle tre brigate alpine rumene che rendevano gli onori al comando del col. Gheorghe Jacob, con al seguito una decina di ufficiali.

    Deposizioni di corone italiane e rumene al bel monumento bianco che domina quelle tombe ormai ingrigite, anche se ben curate, e nell’ara rumena, esecuzione degli inni nazionali da parte della fanfara militare e silenzio d’ordinanza. Inutile dire che all’ultima nota c’era nell’aria una commozione palpabile e nessuno aveva voglia di parlare. Dopo un pranzo da grandi eventi all’Istituto don Orione, con scambi di doni tra le autorità presenti, ufficiali rumeni compresi, è iniziata una simpatica competizione canora tra veneti e friulani, che ha trovato una pacifica composizione solo quando, con un gesto di rara sensibilità, l’ambasciatore ha invitato tutti nella sede diplomatica d’Italia.

    La magnifica residenza, una delle più belle d’Europa, nel cuore della capitale, arredata con gusto raffinato, ha visto invadere le austere sale da un’inconsueta e festosa massa di penne nere, che, sia pur intimidite dalla compostezza del personale di servizio, non hanno tardato a muoversi con disinvoltura tra i ricchi vassoi del buffet e ad apprezzare la squisita accoglienza di chi li ospitava.

    Ormai a proprio agio, a cori riuniti, veneti e friulani hanno cantato alcune canzoni del nostro repertorio alpino, facendo echeggiare, forse per la prima volta, nei saloni prestigiosi, sotto gli occhi severi dei ritratti dei potenti del mondo, le arie care alla gente di montagna.


    DA TRAIANO AD OGGI, FRA DUEMILA MILA ANNI DI STORIA E UN PONTE

    Columna lui Traian este un document istoric de o valoare exceptionala , si legge nella brochure che accompagna la medaglia commemorativa dei 1900 anni della conquista dalla Dacia da parte dell’Impero Romano. Non c’è bisogno di traduzione. Tra le testimonianze che ancora permangono nelle fertili pianure attraversate dal Danubio c’è la lingua latina, ma non solo.

    Proprio sul grande fiume che ha segnato per secoli il confine tra i barbari e i romani, Traiano, che per primo ha portato le aquile delle legioni ad occupare la Dacia felix, ha fatto gettare un ponte, nel 103 dopo Cristo, su progetto di Apollodoro di Damasco, lungo 1.135 m., largo 14,55 e che raggiungeva l’altezza di 18,6. Poggiava su 20 piloni, di cui restano tracce sommerse di almeno una decina e aveva due porte trionfali alle estremità, ancora visibili nelle vestigia risparmiate dagli uomini e dalle intemperie. Tempi di realizzazione?Tre anni.

    Ma non è la storia antica che sorprende chi ha l’occasione di passare qualche giorno a Bucarest. La città, soffocata da un traffico caotico, da un’architettura che risente pesantemente del periodo socialista, non riesce a nascondere completamente il fascino della piccola Parigi , com’era chiamata, che traspare dalle villette liberty, dai palazzi sopravvissuti alla pianificazione che ha tentato di cancellare i segni di un passato ingombrante per chi voleva un nuovo ordine nel mondo.

    Paradossalmente, il popolo si vedeva glorificato nel Palazzo voluto da Ceaus,escu, costato la demolizione di un intero quartiere sorto su una collina cosparsa di eleganti villette con giardino e monumenti di grande valore, 16 miliardi di lei , oltre all’impiego di 20.000 operai, 400 architetti. Tutti avevano il diritto di sentirlo una loro proprietà, ma per guardarlo solo dall’esterno.

    Oltre un secolo fa non furono pochi i capimastri, carpentieri e soprattutto scalpellini che lasciarono la valli del bellunese e del friulano per andare a lavorare nei paesi dell’Est. In una cittadina del Delta Danubio, Greci, c’è ancora una comunità che parla il veneto arcaico. Sono italiani, da generazioni nati e vissuti in Romania, finiti lì perché quelle regioni allora erano ricche e pagavano bene la manodopera speciali
    zzata.

    Hanno conservato ancora usi, costumi e lingua della nostra terra e hanno combattuto sotto il tricolore nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, come ricorda una lapide con 150 nomi nella chiesa retta dai padri di don Orione: Soldati italiani caduti per la patria . Nessuno di questi aveva mai visto l’Italia.

    Ora, per le vicissitudini insondabili della storia, un milione di rumeni vivono in Italia e ottocentomila lavorano in Romania alle dipendenze di imprese italiane. Migliaia di voli partono con frequenze sorprendentemente alte dai nostri aeroporti per Timis,oara, Transilvania, Valacchia, Moldavia. Ancora una volta s’intrecciano i rapporti con popoli diversi per vicende politiche, costumi, religione. Con tutte le implicazioni che ne conseguono.

    La ruota della storia, che non distribuisce la prosperità in modo equo e non sempre secondo i meriti, ha condannato i rumeni a subire per secoli le spinte egemoniche provenienti dai quattro punti cardinali senza riuscire a spegnerne la volontà di riscatto e la determinazione a conservare la loro identità. Non deve quindi sorprendere se in quel paese è nato un gruppo alpini.

    Sono imprenditori, operai specializzati e perfino preti che sentono il bisogno di calcare in testa il cappello alpino per dare una mano a chi è in difficoltà e per portare un mazzo di fiori ai 2.500 caduti del Cimitero Militare Italiano della capitale rumena.