Sul cappello che noi portiamo

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    Giovedì 10 settembre, alle 9.30, puntuali come sempre, davanti al Cappellificio Cooperativo Cervo, a Sagliano Micca, provincia di Biella ci sono alcune penne nere: il presidente nazionale Corrado Perona, il presidente della sezione di Biella Edoardo Gaja e il consigliere nazionale Renato Zorio. Non è difficile capire perché. Da quell’azienda sono usciti in esclusiva per l’ Esercito Italiano, dall’inizio del 900 fino al 1985, i cappelli degli alpini.

     

    Come tutti sanno non si tratta di un semplice copricapo, ma di un simbolo, sicuramente unico nella storia militare di tutti gli eserciti. Una sorta di fenomeno mediatico e d’identità. La visita non è motivata da curiosità, ma è una sorta di pellegrinaggio. Guardando il grande edificio, con ancora ben visibile la denominazione aziendale, come si usava un tempo, è impossibile non provare una forte emozione pensando che da quei saloni sono usciti i cappelli di nostro padre, di fratelli, zii e chissà quanti amici. Ancora più toccante è andare con la memoria alle vicende che hanno contribuito a creare la leggenda delle penne nere.

    Da Adua all’Ortigara, ai monti della Grecia, alle steppe della Russia. Tanti cappelli calzati in testa con la spavalderia della gioventù e tornati a baita col solo desiderio di riabbracciare la mamma e la morosa. Altri sono rimasti sui campi di battaglia, chissà dove. Non è senza una certa soggezione quindi che si varca la soglia di quel grande edificio, eretto su tre piani, 5.500 metri quadri di superficie lavorativa, privo di segni promozionali o di rappresentanza.

    Ad accogliere i responsabili dell’ANA c’è Giorgio Borrione, un signore dall’aria distinta e simpatica, amministratore delegato della società Cervo. Il brio non gli manca e nemmeno lo spirito. Del resto sul suo biglietto da visita campeggia una scritta dorata: Rapa Giovanni, antico liquorificio fondato nel 1880. Immancabile lo scudo sabaudo circondato da un bel gruzzolo di medaglie.

    Seduti ad un tavolo in noce, la stanza tappezzata da stampe e foto antiche, la conversazione scorre subito piacevole e amichevole. Approfittiamo per porre qualche domanda.

    Signor Borrione, dire che si è sorpresi entrando nella sua azienda è poco. Si scopre una realtà che sembra più vicina ad un museo che ad una prestigiosa azienda. Qual è il segreto del vostro successo? La forza della qualità. Nel processo lavorativo non abbiamo mai cercato di rincorrere l’ultimo ritrovato della tecnologia. Questa non fa storia. Puntiamo tutto sulla professionalità consolidata delle maestranze. Nel nostro settore, solo un processo produttivo affidato alla manualità, cresciuta attraverso l’esperienza di maestri esperti e che rischiamo di perdere se qualcuno non penserà di fare scuola , può garantire un prodotto di eccellenza.

    Il mercato è sensibile, cioè risponde a questa vostra scelta? Si. Specialmente da parte di chi vede nel copricapo una sorta di espressione culturale . Vuole spiegarci meglio? Certamente. In passato un uomo non poteva uscire di casa con il vestito da festa senza il cappello. Anzi, lo portava sempre. Dalla foggia che sceglieva, da come lo calzava, dal tratto che aveva nel salutare, da come lo teneva in mano si qualificava distinto signore o persona ordinaria. Questa tradizione resta ancora viva in Giappone, e non è casuale che quel paese sia il nostro mercato più interessante. Siamo convinti che, a cominciare dalle signore, un modo per mantenere alto il tratto raffinato, per comunicare con eleganza, per esprimere rispetto anche attraverso un tocco sul cappello, non sia una prospettiva da accantonare. Si tratta di riuscire ad interpretare nei tempi e modalità corretti un bisogno latente, ma vivo e reale.

    Quindi puntate sull’alta qualità? Certamente. C’è una fascia di clientela, in costante crescita, che sa apprezzare il valore del prodotto di qualità. Può sembrare una scelta controcorrente e forse lo è. Stiamo però investendo sullo stile e su persone che hanno delle peculiarità professionali coniugate alla passione per questo tipo di lavoro. Dalle parti nostre ci sono. Non è un problema di risorse finanziarie, che fortunatamente abbiamo anche grazie al recente ingresso di soci importanti, ma di impegnarci ad accettare la sfida. Un tempo producevamo 820.000 copricapo con 320 dipendenti, ora 80.000 con 22. Abbiamo una clientela affezionata e per questo guardiamo con fiducia al futuro. Anche per quanto riguarda il cappello alpino.

    L’esercito professionale ha ridotto gli alpini ad una decina di migliaia. Le prospettive per quanto riguarda l’ambito militare non sono rosee. A suo parere quali sono gli elementi che vi fanno guardare con ottimismo ai prossimi dieci, vent’anni? Fino al 1985 la nostra azienda era l’unico fornitore dell’Esercito. Soldati e ufficiali. Si è arrivati a produrre, negli anni cinquanta, fino ad 80.000 cappelli all’anno. Poi sono state bandite da parte dell’Esercito delle gare internazionali e sono entrate la Polonia e la Cina. Sui risultati non sta a me esprimere valutazioni. Ora siamo sui 300 cappelli all’anno e il Bantam resta sempre il pezzo forte della nostra linea.

    Non è necessario spendere parole per convincere gli alpini che la vostra azienda confeziona la migliore qualità dei cappelli alpini. Il mio ha resistito a tutto per cinquant’anni e continua a restare in servizio. Poiché nessuno di noi lo considera un prodotto commerciale, ritiene che la vostra sia stata per oltre un secolo una fabbrica di sogni o che resti ancora un sogno per i giovani di oggi?L’amore e la passione con i quali abbiamo sempre lavorato mi consentono di dire che abbiamo confezionato un prodotto sicuramente emblematico dell’esperienza giovanile di tanti ragazzi e che ha esaltato le loro aspettative. Oggi sono cambiate tante cose, ma ritengo che il vostro simbolo resti una testimonianza unica di un’epoca che non è finita. E quindi il sogno continua.

    Lei sa che l’ANA opera con determinazione per la conservazione di un patrimonio civile, e non solo, che stenta a trovare cittadinanza in un contesto sociale instabile, per non dire in degrado. Ritiene che ci siano ancora margini per mantenere viva la tradizione alpina? A L’Aquila sono arrivati per primi gli alpini. A Biella quando c’è bisogno, gli alpini sono sempre presenti. Così avviene in tutte le regioni del nord e dell’Abruzzo. La vostra forza è nella gratuità e quindi l’Associazione non teme i cambiamenti del nostro tempo. Posso aggiungere che siamo orgogliosi di essere vostri fornitori. Lunga vita all’ANA.

    Nel vostro cassetto c’è un sogno che vorreste vedere realizzato? Meno macchine, più cappelli.

    Vittorio Brunello

    Pubblicato sul numero di ottobre 2009 de L’Alpino.