Nikolajewka: un racconto, quasi un testamento

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    È dal 1948 che la sezione di Brescia si incontra con i reduci del Corpo d’Armata Alpino e tutti quelli che sono sopravvissuti alla Campagna di Russia per rendere onore alla schiera innumerevole di Caduti e Dispersi . Una manifestazione a carattere nazionale che fa da fulcro ad una serie di tanti altri incontri in ogni parte d’Italia a testimonianza dell’attaccamento della società civile alle penne nere e soprattutto a ricordo di chi si è sacrificato in nome dell’obbedienza all’autorità dello Stato.

    Alla scuola Nikolajewka di Mompiano, nel primo pomeriggio del 29 gennaio, dopo la resa degli onori ai Gonfaloni della Città e della Provincia di Brescia, presenti dodici reduci, tra i quali Vettorazzo, Vicentini, Cenci, Danda, Floretti, Viviani, autorità civili e militari, con una rappresentanza di ufficiali russi, entra il Labaro dell’ANA scortato dal presidente Corrado Perona e da una decina di consiglieri nazionali. Sono presenti oltre venti vessilli sezionali, in prima fila quello di Brescia con al fianco il presidente Davide Forlani, e una marea di gagliardetti. A seguire, la cerimonia della deposizione di una corona di alloro.

    L’allocuzione commemorativa è tenuta dal reduce Guido Vettorazzo di Rovereto. Con la verve di un trentenne si è immerso nella vicenda dei nostri soldati dell’ARMIR con grande lucidità, senza nascondere una leggera venatura di commozione. Da protagonista ha rivissuto quei giorni drammatici e non manca di denunciare la colpevole insipienza dei governanti che li ha portati ad affrontare un’impresa disperata. Per un mese gli alpini hanno tenuto testa all’offensiva dei russi denominata Piccolo Saturno, e la Julia dovette effettuare un trasferimento d’urgenza dalle basi che si era costruite per affrontare l’inverno ad un settore privo di opere di difesa, dove altre Unità avevano subìto un violento attacco.

    Quando ricevettero l’ordine di ritirarsi, non furono certo le marce a metterli in difficoltà, ma la mancanza totale di un’organizzazione che garantisse un po’ di cibo o almeno fosse in grado di indicare in che direzione dovevano andare. Il 19 20 gennaio, a Postojalowka, resistettero per 30 ore agli attacchi distruttivi dei russi e quando riuscirono a sganciarsi e raggiunsero Valuiki si consumò la tragedia. Le bande di partigiani, spesso formate da giovanissimi, sparavano e uccidevano quasi per gioco. In quella situazione salvarsi era l’impulso che dominava un po’ tutti. Nessuno era in grado di portare in spalla un compagno ferito o privo di forze, come qualcuno racconta , precisa con fermezza e aggiunge: La lunga fila della ritirata si assottigliava con tanti che crollavano nella neve implorando aiuto o semplicemente si abbandonavano in silenzio tra le braccia della morte bianca .

    Il racconto, affascinante nella sua drammaticità, quasi un testamento, ha tenuto tutti i presenti in un silenzio commosso e ammirato. Guido, col suo appassionato narrare, ha reso più autentica la testimonianza di empatia umana che proviamo verso quella lunga fila di fantasmi bianchi svanita nell’orrore della steppa russa. Il gen. D. Gianfranco Rossi ha portato il saluto delle Truppe alpine e il suo, come comandante della divisione Tridentina ed ex comandante della brigata Julia. Ha ricordato che il sedimento di fatti storici ci consente oggi di vedere salire sui pennoni le bandiere di Paesi un tempo nemici, nel segno di una cooperazione operosa in operazioni di pace.

    Il suo pensiero, partendo dal ricordo di tanti italiani che hanno obbedito agli ordini di chi aveva la responsabilità di governare, si è soffermato sugli impegni dei nostri soldati oggi e sullo spirito che li anima nell’affrontarli. Gli alpini conservano le peculiarità che ne hanno fatto una leggenda e vogliono dimostrare di essere degni di perpetuare le tradizioni del nostro passato.

    Ha concluso gli interventi il presidente Perona, che dopo aver rivolto un caloroso saluto a tutti i presenti ha affidato il suo pensiero ad un intervento del beato don Gnocchi in occasione di una cerimonia a Casatenovo, 1955, nella ricorrenza della ritirata di Russia: Ricordo una sera disse il beato con il gen. Reverberi, una tempestosa sera in un’isba nella quale si è affacciata l’idea della resa Non ho sentito il minimo dubbio, nessuno ha potuto avanzare anche lontanamente il sospetto che si potesse arrendersi Ho sentito dire tutti i giorni: vogliamo andare a casa. Cose inaudite che solo gli alpini potevano fare a 7.000 chilometri dalla baita . Che cosa ci ha spinto? La casa, il desiderio di questa nostra terra, di queste vostre famiglie. Una notte a Limarev, il 23 gennaio (1943, n.d.r.), ci eravamo asserragliati in questo paese. Ero rimasto indietro per assistere un colonnello, morto poi, con gli ungheresi e un altro ufficiale. Io andavo mordendo con i piedi disperati la neve nella notte scurissima. Ogni tanto perdevo questo ufficiale, alpino e medico, poi lo sentivo ansimare ancora, lo vedevo avvicinarsi, lo risentivo vicino a me. Mi accorsi che quando riprendeva forza mormorava tra i denti: i miei figli!, i miei figli!, i miei figli! Ecco perché siamo tornati e per rifar bella l’Italia, per rifarla migliore .

    Nel Salone Vanvitelliano di Palazzo della Loggia il reduce Vicentini, con la sua sodel davai’ e della prigionia. Oltre l’ottanta per cento non sopravvisse alle marce, ai trasferimenti in treno, agli stenti dei primi mesi di prigionia. L’accoglienza di una massa enorme di prigionieri da parte dei Russi è stata dura e caotica, con l’attivazione di campi provvisori dove si riparavano dal freddo in buche e poi in quelli organizzati dove la morte per stenti falcidiava una gran quantità di soldati. E ha concluso: Ma gli alpini in ogni circostanza sanno trasformare il loro servizio in opere di carità e solidarietà umana .

    La messa in Duomo Nuovo, celebrata dal vescovo di Brescia mons. Luciano Monari e concelebrata da dodici confratelli, di cui alcuni cappellani alpini, oltre al ricordo dei Caduti ha avuto un momento di sottolineatura alpina nell’omelia del presule, quando ha evidenziato come anche da esperienze di guerra segnate da profonde sofferenze e tragedie nascano comportamenti e sentimenti di fraternità. La custodia della memoria diventa motivo per valorizzare sentimenti e relazioni che radicano un forte sentimento d’identità e un bisogno di far emergere l’umanità insita nella natura di ognuno di noi.

    v.b.

    Pubblicato sul numero di marzo 2011 de L’Alpino.