Nelson, un amico, una guida morale

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    Un grande alpino, un amico, se n’è andato. Nelson Cenci è morto lo scorso 3 settembre, aveva 93 anni. Il giorno dei funerali, concelebrati da don Agostino Plebani, da mons. Angelo Bazzari, dal cappellano militare e dal colognese don Endrio, era come essere ad una piccola Adunata. Il feretro è stato portato a spalla dagli alpini del 7° nella chiesa di Cologne tra due ali di folla.

     

    C’erano le autorità locali – recentemente l’amministrazione comunale gli aveva conferito la cittadinanza di riconoscenza per i meriti come medico, alpino e cittadino – i compagni reduci, il comandante delle Truppe alpine gen. Alberto Primicerj, centinaia di gagliardetti, 25 vessilli e tante penne nere che hanno abbracciato commossi i famigliari, le figlie Giuliana e Mariagrazia e il nipote Francesco che ha letto una toccante lettera al nonno.

    Durante l’ultimo saluto il presidente nazionale Corrado Perona si è commosso, rievocando le parole ripetute in occasione del funerale di suo padre: “Siamo costernati per averti perduto, ma ringraziamo per averti avuto”. E ha ricordato l’entusiasmo e i consigli che ha sempre dato all’Associazione per la quale Cenci provava un amore paterno. Era nato a Rimini il 21 febbraio 1919. Volontario, domandò espressamente di essere destinato al Corpo degli alpini. Nel novembre 1940 fu aggregato al 7° Alpini, a Belluno. Dopo un periodo di addestramento al battaglione universitari allievi ufficiali alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo di Aosta, dove consegue il grado di sergente, chiede di essere assegnato ad un reparto combattente.

    Nel 1941 è in Montenegro con il battaglione “Val Fella” del 1° Gruppo Alpini “Valle” della “Julia” e nel 1942, da sottotenente, viene inviato in Russia con la Tridentina, dove comanda un plotone della 55ª compagnia del battaglione “Vestone”, 6° Alpini, lo stesso reparto di Mario Rigoni Stern, che più volte lo citerà ne “Il sergente nella neve”.

    Nei tragici giorni del ripiegamento guidò i suoi alpini tra marce forzate e sanguinosi combattimenti, fino a quello di Nikolajewka, decisivo per rompere l’accerchiamento e sperare nella salvezza. Fu in quell’occasione che rimase ferito alle gambe. Per il comportamento esemplare gli venne conferita sul campo la Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione: “Durante un duro attacco ad un forte caposaldo avversario confermava le sue magnifiche doti di combattente sereno, capace e coraggioso, alla testa dei suoi alpini. Gravemente ferito non desisteva dalla lotta che dopo viva insistenza del suo comandante, rammaricandosi con nobili parole di non poter più contribuire all’azione in corso. Magnifica tempra di ufficiale ardito e trascinatore”.

    La sua vita da civile ha eguagliato per soddisfazioni e successi quella militare. Al termine della guerra riprese gli studi, si laureò in Medicina e Chirurgia specializzandosi in otorinolaringoiatria. Ricoprì incarichi come primario ospedaliero, docente all’Università di Varese, curando svariate pubblicazioni scientifiche. Anche quando si ritirò dall’attività professionale non dimenticò i suoi alpini e in particolare il conducente Lancini e gli altri bresciani che lo avevano condotto ferito fuori dalla sacca russa.

    Decise quindi di stabilirsi proprio a Cologne, dove acquistò una bella tenuta, “La Boscaiola” e, con l’aiuto della figlia Giuliana, iniziò a produrre vino di alta qualità, oggi esportato anche all’estero. Scrittore e poeta, ha pubblicato molti libri sulla sua esperienza in guerra e sulla naja alpina, ultimo dei quali intitolato “…Accanto al camino…”, che raccoglie brevi racconti autobiografici e belle poesie. L’amore per il cappello alpino lo ha portato nel cuore per tutta la vita, quando poteva era sempre con le penne nere, alle Adunate nazionali alle quali non mancava mai, agli incontri con le scuole dove i più giovani ascoltavano rapiti i suoi racconti.

    Accoglieva tutti con il sorriso e parlava con semplicità e schiettezza. In un’intervista recente aveva detto: “Spesso mi soffermo a guardare la natura che ci circonda, e al suo cospetto penso che gli uomini siano una presenza effimera. La vita in fondo è così breve. Quando uno scompare, dopo poco nessuno più lo ricorda. Questo mi porta molta malinconia. A volte penso che – dei miei colleghi all’ospedale – sono l’unico rimasto. Della mia 55ª Compagnia siamo restati solo io e un certo Primo Zambelli che vive sopra Vestone. Chi è che ci ricorda? Chi ricorda il passato, adesso?”. Gli alpini non ti dimenticheranno… ciao Nelson! (m.m.)