Montagne, deserti e altro ancora sulla strada di Marco Polo

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    Sulla via della seta per seimila chilometri con il più grande viaggiatore terrestre di tutti i tempi.

    Se i Vikinghi che sbarcarono in America intorno al Mille avessero avuto a bordo un Marco Polo, oggi non si parlerebbe tanto di Cristoforo Colombo. E benedetta sia la sconfitta casalinga della ‘Serenissima’ nelle acque di Curzola a opera della ‘Superba’: prigioniero di guerra nelle carceri genovesi, il veneziano ebbe tutto il tempo di dettare al compagno di cella Rustichello da Pisa, modesto artigiano della penna, appunti e reminiscenze dei suoi viaggi, che avrebbero spalancato agli europei una finestra sull’Asia sconosciuta e sconfinata. Trascritto nell’idioma francesizzante dei mercanti, il ‘Libro delle Meraviglie’ di Marco Polo sarà tradotto in tutte le lingue europee, diventando il best seller più famoso del Medioevo.

    In Italia è noto come ‘Il Milione’ (aferesi di ‘Emilione’, soprannome di un ramo della casata che aveva come emblema tre garrule cornacchie, le ‘pole’). Il suo lettore più illustre sarà proprio Cristoforo Colombo, la cui traversata atlantica sarà intesa a ‘buscar el levante por el poniente’, cercare le terre orientali giungendo da occidente, ignaro che tra il dire e il fare c’era di mezzo l’America. Marco è un giovanotto vivace e curioso che nel 1271, diciassettenne, lascia le sponde del Mediterraneo col padre Niccolò e lo zio Matteo, commercianti di pietre preziose, al loro secondo viaggio nell’impero mongolo, latori anche di una missiva del ‘signor Papa’ al Gran Khan Kublai, che stava completando l’occupazione della Cina.

    Dopo il Mar Nero, alla carovana dei veneziani si aprono le incerte piste della Via della Seta, oltre seimila chilometri di deserti pietrosi e sabbiosi, altipiani sterminati, fiumi profondi, valichi montani battuti da venti gelidi: le notti si trascorrono nei caravanserragli scaglionati lungo il percorso. Marco osserva, annota, memorizza e arricchisce il suo vocabolario. In terra armena è subito incuriosito da strane sorgenti che emettono a fiotti un olio scuro combustibile: ‘Se ne potrebbero caricare cento navi alla volta’. Passerà qualche secolo, ma poi ci penseranno…

    Quando attraversa l’altopiano iranico sente ancora aleggiare lo spettro del ‘Veglio della Montagna’ e della sua scuola per apprendisti killer, musulmani sciiti che, narcotizzati durante la ‘visita di leva’, si risvegliavano in un giardino incantato, pieno di tutte quelle voluttà che Maometto aveva promesso nell’aldilà ai suoi fedeli. Inebriati dall’ hashish, gli ‘asciscin’, assassini, erano pronti alle missioni più rischiose, anche alla morte, pur di poter rivivere quel paradiso di delizie. Oggi, subentrati al Veglio gli sceicchi del terrore, i pugnali silenziosi sono stati sostituiti dal più redditizio tritolo radiocomandato.

    Dopo il Golfo Persico la Via della Seta attraversa l’Afghanistan e costeggia a sud l’imponente massiccio del Pamir, il ‘Tetto del Mondo’, dalle cime luccicanti di ghiacciai. Nella valle del Wakhan i pastori ‘si vestono con pelli di bestie e a bestie somigliano’: le donne ‘portano brache di ben cento braccia di panno per parere di grosse natiche, perchè i loro uomini si dilettano di femmine grasse’.

    Praticano l’alpeggio: ‘abitano d’inverno in piano, d’estate su monti e fresche valli con acqua che scroscia fra rocce e burroni’. L’aria è così pura che i febbricitanti ‘vi stanno su e si ritrovan sani’: colpito dalla malaria, lo stesso Marco si ristabilì. A Cambalik, la futura Pechino, dove giungono nella tarda primavera del 1275, i Polo son festosamente accolti da Kublai, al quale Niccolò presenta il rampollo, che già si esprimeva in quattro lingue: ‘È mio figlio e servo vostro’. ‘Sia il benvenuto’.

    Diffidente verso i cinesi, da poco sottomessi, ostile ai musulmani, il Khan, figlio di madre cristiana nestoriana, era ben disposto verso gli europei e la loro religione: nel giorno di Pasqua baciava il Vangelo (se la lettera del papa fosse stata concepita con maggior lungimiranza, chissà, forse l’aereo di Giovanni Paolo II sarebbe riuscito un giorno a posarsi sull’aeroporto di Pechino…). Marco conquista la fiducia di Kublai che lo nomina funzionario imperiale e, mentre padre e zio si arricchivano col commercio, può soddisfare la sua sete di conoscenza percorrendo in lungo e in largo le terre dell’impero in formazione e ragguagliandone minuziosamente il sovrano.

    I suoi diari non rispettano una sequenza cronologica, ma si dipanano in un mosaico di schede dove curiosità naturali, credenze religiose, vita sociale, comportamenti sessuali si susseguono a ritmo incalzante, attirando la sua e la nostra attenzione. Lo vediamo soffregare con interesse la resistente cartamoneta, ignota in occidente, ricavata dalla corteccia del gelso, osservare la fiamma che scaturisce da pietre nere estratte dalla montagna (il carbon fossile è quasi sconosciuto in Europa), fiamma che non riesce però ad accendere i filamentosi tessuti di asbesto (amianto) che dal fuoco escono invece ‘candidi come la neve’ (ai tempi di Marco l’amianto era detto ‘salamandra’, perchè si riteneva lana di quell’animale creduto inattaccabile dal fuoco).

    Eccolo nelle vicinanze di un monastero georgiano mentre scruta perplesso le acque di un lago che brulica di pesci per la sola durata dei quaranta giorni quaresimali. E nella valle dell’Indo chissà come si sarà comportato con ‘quelle donzelle dalle carni sode consacrate alla divinità che per un denaro piccolo consentono a chiunque di pizzicarle’ e se avrà accettato l’ospitalità in quei villaggi mongoli dove gli abitanti offrivano al visitatore le proprie donne, ritirandosi in punta di piedi per non disturbare, stupefatti e divertiti se il fruitore lasciava poi qualche moneta.

    Se poi la famiglia era appena stata allietata dall’arrivo di un bebè, mentre la puerpera si arrabattava per casa, era buona regola trovare il padre a letto per ricevere le congratulazioni di parenti ed amici. Marco Polo è il primo a farci conoscere il Tibet, il Laos, la Tailandia e il Giappone (Cipangu: paese del sol levante), che proprio in quegli anni Kublai tentò di ridurre a stato vassallo inviandovi una potente flotta. La salvezza degli isolani fu attribuita al kamikaze, il ‘vento divino’ di un terribile tifone che cosparse il mare di rottami e di cadaveri: darà il suo nome ai piloti suicidi nella guerra del Pacifico.

    Quando, nel dicembre 1944, una flotta americana si avvicinò a Luzon (Filippine) per distruggere le loro basi, un fatale ricorso storico la fece imbattere nell’ uragano ‘Cobra’: tre navi colate a picco, dieci danneggiate, 750 vittime. 1292. Si ridesta dopo vent’anni la nostalgia della Laguna. Kublai è restìo alla loro partenza, ma per i veneziani si presenta un’occasione insperata: la crociera nuziale della diciassettenne principessa Cocacin, attesa in Persia come promessa sposa del sovrano mongolo Argon, rimasto vedovo.

    Come persone informate sui luoghi, potrebbero ‘chiedere un passaggio’, offrendosi come accompagnatori: il Gran Khan cede e i tre Polo si profondono nell’ultimo inchino. Toccano Giava, Sumatra, India e Sri Lanka, dove Marco completa l’album dei souvenir descrivendo una ripida montagna attrezzata con catene di ferro: via ferrata ante litteram che portava sul Picco di Adamo (2.274 m.), il nostro progenitore relegato lassù dopo la cacciata dal sottostante giardino dell’Eden, a espiazione del suo peccato prima di potersi ricongiungere con Eva (e lei, come se l’era cavata?).

    Quando Cocacin sbarca in Persia il suo pretendente è già passato a miglior vita, lasciando un ragazzino sotto reggenza. Tornerà indietro?No, aspetterà che cresca un po’. Spreme una lacrimuccia quando saluta i Polo,
    cui si era affezionata, che raggiungono Venezia via terra nel 1295, dopo 24 anni di assenza. Come Ulisse a Itaca, più nessuno li riconosce. Bussano alla porta di casa e in alto si schiude una finestrella: ‘Chi xè?’ ‘Chi xè?I paroni, ostrega!’.

    Umberto Pelazza