L'Italia che non fa rumore

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    Il 17 marzo scorso, per la seconda volta in vita mia, ho comprato una bandiera italiana. La prima l’avevo acquistata nell’82 per i mondiali di calcio. Ventinove anni in meno e una coscienza civica più pallonara che altro, si prestavano ad uno sventolio che celebrava l’Italia campione del mondo.

    Ventinove anni dopo, con l’anagrafe che incalza e il tifo che si snoda tra una poltrona e un canale Sky, il drappo s’è fatto più grande, sorretto da un’asta di bronzo e acciaio che costa un capitale. L’ho esposto nel salone di rappresentanza della Biblioteca che dirigo. Sta a Verona ed è la più antica d’Europa e dentro, se solo si ascolta con attenzione, si sente il sussurro dei codici fermi lì da 1.600 anni. Al confronto i centocinquanta del Belpaese, rappresentano il vagito di un bimbo. Eppure è proprio sul ceppo di una storia lontana, che fiorisce l’Italia giovane e gagliarda, dalla voce squillante, che gufa i catastrofisti e i venditori di pessimismo.

    Viva l’Italia! E mi rincuoro, pensando a Dante e Petrarca, a Tiepolo e Canova, a Michelangelo e Leonardo, a Colombo e Galilei, a Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, a Leopardi e Manzoni, a Marconi e Meucci Cito a braccio facendo torto ai più, a troppi. Scorro la storia, così come mi passa sulla scena del cuore e penso che il bello che ci portiamo appresso è piantato nelle radici profonde del passato, prima che la politica mettesse il timbro dell’ufficialità ad una nazione che ancor divisa, era pur sempre Italia.

    Scruto con gli occhi le architetture di Varsavia e di Berlino, di San Pietroburgo e di Parigi e sento l’eco delle parole ammirate dei francesi parrucconi del Settecento che raccontano al mondo il genio des italiens, mentre si preparano a venirli a saccheggiare. Sfioro con la mano la bandiera tricolore e sento la freschezza del suo presente.

    È un presente attraversato dai venti della cronaca e i sussulti finanziari, che spesso ne rendono convulso il garrire. Ma è pur sempre un presente segnato dalla forza di un’identità solida e resistente. È quella delle piccole imprese a conduzione familiare, che hanno consentito il miracolo italiano e la rinascita di regioni segnate dalla miseria. Le stesse imprese, che sia pure nelle fatiche di una sfida epocale, consentono ancora tenori di vita impensabili in altre parti del mondo.

    È quella del volontariato, diffuso sul territorio come una mano silenziosa e operosa rivestita di fraternità, che ha nella Protezione civile un’espressione di eccellenza, ma che rappresenta uno Stato sussidiario dentro lo Stato. È quella dei donatori di sangue, di organi, di midollo osseo, sempre disponibili a supplire ai deficit delle risorse scientifiche con prontezza e altruismo.

    È quella della politica virtuosa, che nessuno sembra più vedere, travolta dal brutto della Casta, che un’informazione a senso unico continua a proporci. Penso invece ai Comuni virtuosi, l’Anticasta, quelli che hanno voglia di curare il bene della gente, ascoltandola, coinvolgendo i cittadini nelle scelte energetiche alternative, in quelle a favore del rispetto ambientale, nella raccolta differenziata, nell’organizzazione dei servizi sociali. Una miriade silenziosa, come la foresta che cresce, seminando civiltà mentre in giro si sentono i botti degli impallinatori di professione.

    È l’Italia della famiglia, quella che ancora tiene, tenendo unito il tessuto sociale, a dispetto delle pur troppe coppie che si disfano. È la famiglia che vive nel villaggio, distante dall’anonimato delle metropoli, che conserva il buon senso dell’opinione comune, quella delle casalinghe e degli operai, degli artigiani e delle parrocchie, dei bambini e dei nonni, mentre l’opinione pubblica sembra specializzarsi alla cattedra del gossip e del tutto possibile. Un’Italia che ha ancora il senso della casa e fa dire agli acuti osservatori britannici che la nostra qualità di vita, superiore al resto d’Europa, è ascrivibile alla tenuta della famiglia e ad un cattolicesimo di buona marca.

    È l’Italia degli alpini, cari amici. Una realtà piccola nella logica dei numeri. Ma ben più grande nello scenario culturale. Ci sarà pur una ragione se l’Italia ci ama e se il nostro profumo lascia il segno. La retorica è pericolosa, ma una falsa umiltà è altrettanto pelosa. Se l’Italia è ancora bella, un po’ di lifting glielo abbiamo fatto anche noi.

    Bruno Fasani