Il profumo dell’alpinità

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    Oggi è il giorno della festa della mamma. È una domenica impegnativa, come altre da quando presto servizio presso l’hub vaccinale di Malpensa Fiere, a Busto Arsizio. Il mio compito consiste nell’accompagnare le persone ai box vaccinali. Alcune di loro chiedono informazioni, altre mi parlano mentre il tempo scorre. Una signora si avvicina, mi saluta con grande gentilezza e poi, con una naturalezza ed una confidenza inaspettate, comincia a raccontarmi di sé. Il dolore che si porta dentro diventa ancora più pesante mentre si trova ad un passo dalla vaccinazione. Nel febbraio 2020 il Covid si è portato via suo marito e il suo unico figlio, che attendeva con gioia di diventare papà nel mese di luglio successivo. Erano rientrati dalla Cina dopo un viaggio di lavoro e avevano finito per contagiare anche lei. Dopo due mesi di ricovero in ospedale, mentre lei migliorava e riusciva infine a guarire, i suoi la abbandonavano, soccombendo alla malattia. «Quel che ho visto durante le settimane trascorse in ospedale – mi dice – è indescrivibile. Dolore e morte…». Mi confida che ritornando a casa ripeteva a sé stessa che di certo la tragedia della pandemia avrebbe reso gli uomini più buoni, avrebbe accresciuto il rispetto per la vita e per i legami tra le persone. «Ho incontrato tante persone che mi hanno sostenuta, che mi hanno aiutato a resistere, soprattutto per stare accanto al mio nipotino». E dopo un istante di silenzio, con la voce incrinata dalla tristezza, prosegue: «Purtroppo ho anche visto e sentito persone che, al contrario, si facevano beffe dei morti e parevano quasi gioire perché la sciagura aveva colpito persone che odiavano». Tace e io taccio con lei. Alza lo sguardo e mi chiede: «Ma queste persone così cattive quando si guardano allo specchio non vedono il demonio che è in loro?». La fila avanza, la signora si avvicina al suo box vaccinale, io sinceramente non trovo le parole giuste per consolarla. Si volge e guarda lo stemma cucito sulla mia maglia: «Oggi siete qui in tanti, infermieri e medici, volontari, mentre potevate stare a casa a festeggiare con i vostri figli o le vostre mamme». Io le spiego che faccio parte della Protezione Civile dell’Ana, Sezione Varese e finalmente i suoi occhi si illuminano: «Anche il mio papà era alpino e diceva che tra alpini erano tutti fratelli, il dolore di uno era il dolore di tutti. Quante cose belle fanno gli alpini, continuate così!». Dopo l’iniezione mi fa un cenno, io mi avvicino e si capisce che vorrebbe abbracciarmi ma il Covid ci ha tolto anche questo… Le dico «Abbracciamoci con lo sguardo!» e nei suoi occhi colgo la bellezza e la gioia di un incontro.

    Antonietta Rotondo, Pc Ana Busto Arsizio, Sezione di Varese

    Leggo questa bellissima lettera e sento che non so da che parte cominciare per rispondere. La verità è che tra le righe ci sono molti e importanti messaggi. C’è il genio femminile. Quello di una addetta alla Protezione Civile che guarda alle cose da fare, ma soprattutto guarda gli occhi e il cuore delle persone. Quello di una donna che ha attraversato il deserto del dolore, ma che è ancora capace di gratitudine verso la vita e gli altri. Penso alla testimonianza degli alpini, servizievoli, sorridenti, mai stanchi… profondamente umani, perché il dolore di uno è il dolore di tutti. Ed è su queste considerazioni che viene la voglia di battere le mani agli alpini, alla Protezione Civile, perché è da loro, impegnati sul territorio che esce il profumo della alpinità. Quella che ci fa sentire il desiderio di appartenere ancora a questo Corpo meraviglioso, nonostante le nostre piccole o grandi miserie.