Con gli alpini, ospiti dei Malek e dei Mullah

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    KABUL, 24 febbraio Sveglia alle 5 e 30. È già giorno a Kabul, anche se siamo ancora a febbraio. Giro di ispezione per l’accampamento. Salgo sulla torretta per portare una tazza di caffè alla sentinella infreddolita. Scambiamo quattro parole osservando il panorama intorno alla base: distese di terreno arido d’estate ed ammantato di neve d’inverno, come adesso. Ce ne saranno almeno quaranta centimetri. Abbastanza per rallentare la vita di tutta la valle di Musahi, a poche decine di chilometri dalla capitale afgana, dove teniamo un avamposto.

    Lo hanno costruito quelli del 5º di Vipiteno, che lo hanno battezzato FOB Sterzing’ (FOB è l’acronimo di Forward Operating Base, base operativa avanzata) e ci hanno trascorso cinque mesi prima di passarlo a noi del 2º. Scruto l’orizzonte mentre il sole si alza rapidamente e guardo verso Kabul. Non siamo lontani dal resto del contingente, in linea d’aria. In questa stagione i collegamenti non sono facili, però. I rifornimenti arrivano in elicottero: oggi aspettiamo un carico di viveri e di ricambi per i cingolati da neve. Adunata alle sette con la compagnia, dopo essere passato in sala radio per trasmettere le novità. Giornata calma, quella di ieri: riferiamo al comando nessuna novità .

    Due giorni fa, invece, eravamo dovuti uscire in fretta dalla base per verificare la segnalazione fatta da un capo villaggio. Un ordigno sepolto nella neve e pronto ad esplodere al passaggio delle nostre pattuglie o della polizia afgana. Ero andato di persona con due Lince ed un BV ad assistere al lavoro dei nostri genieri. Sessanta chili di esplosivo e un congegno rudimentale per comandare l’esplosione a distanza. Sempre più spesso i Malek, come qui chiamano i capi villaggio, ci informano di movimenti sospetti o sulla presenza di nascondigli di armi nella zona. Il controllo del territorio qui è impossibile senza l’aiuto dei locali: la zona è vasta, i villaggi sparpagliati, la presenza del governo e della comunità internazionale ridotta al minimo.

    Ci sono migliaia di abitanti, nella valle. Vivono di agricoltura ed allevamento e abitano in case di fango senza elettricità ed acqua. Il primo problema, qui, non è la sicurezza ma il sottosviluppo. Tra i cento alpini che ho con me ci sono anche due specialisti in progetti di sviluppo. Un ufficiale architetto, friulana, ed un giovane maresciallo di Cuneo che hanno preparato un bel po’ di iniziative.

    Ormai abbiamo consolidato il metodo: ogni giorno faccio cento chilometri di strada per battere tutti i villaggi della valle; incontro i Malek, i mullah, gli insegnanti delle scuole, i poliziotti locali e tutti coloro che possiedono autorità od influenza all’interno delle comunità; ascolto e prendo nota di quel che succede e soprattutto dei bisogni immediati; al ritorno mi riunisco con i comandanti di plotone, traccio un bilancio della giornata e decido che azioni intraprendere: intensificare le pattuglie in determinate zone, oppure scavare pozzi per l’acqua in alcuni villaggi o, ancora, costruire un ambulatorio in zone assai disagiate. Tra una settimana inauguriamo la scuola che abbiamo fatto costruire in un villaggio poco distante dalla FOB.

    Fino a qualche mese fa erano rare le famiglie del villaggio che si prendevano la briga di mandare i figli a seguire le lezioni a dodici chilometri di distanza, in un agglomerato di tende che assai generosamente qui chiamano scuola. Dalla prossima primavera, grazie anche a fondi raccolti a Cuneo e a Bolzano, nonchè fra le Sezioni dell’ANA, avranno una palazzina dedicata ai giovani: otto aule con banchi, sedie, lavagne e stufe.

    Compreremo anche libri, cartelle e quaderni. E soprattutto vigileremo che la scuola funzioni e sia ben tenuta. Il programma di oggi prevede un giro di visite nei villaggi a nord della nostra base avanzata. Ieri mi hanno chiamato sul cellulare diversi Malek per chiedere aiuto: nei giorni passati la temperatura è scesa parecchio sotto lo zero e ci sono molti malati a causa del freddo. L’interprete afgano che vive con noi ha il suo daffare.

    Ci aiuta a tradurre ma anche a mediare con i locali. Ci mettiamo d’accordo: passeremo in giornata (mai comunicare orari o itinerari, ovviamente) e porteremo con noi il medico e generi di conforto. Ordino al maresciallo che comanda uno dei plotoni di prepararsi a uscire e di caricare sui BV’ coperte, candele, medicine e viveri a più non posso. Intanto verifico le cartine ed imposto i dati sul GPS: dalla sala operativa saranno in grado di seguire i nostri spostamenti passo passo, grazie all’integrazione radio navigatore satellitare. Una sicurezza in più. Con noi verrà anche l’architetto, così si fa un’idea delle condizioni della zona.

    Ultime consegne per la base: preparare la zona di atterraggio degli elicotteri per il primo pomeriggio, quando arriverà il Chinook con i rifornimenti. Abbiamo ancora scorte sufficienti, ma è meglio premunirsi. Indossiamo elmetto e giubbotto antiproiettile, carichiamo le armi e partiamo alle 9 in punto, con il sole già alto. Percorriamo decine di chilometri di piste innevate, battute solo dai nostri fuoristrada Lince’: veicoli di ultima generazione, con una blindatura speciale sotto lo scafo in grado di resistere alle esplosioni. All’interno bisogna legarsi con un doppio sistema di cinture di sicurezza che impediscono sobbalzi in caso di urto. L’equipaggio comunica tra sè via radio, pronto ad ascoltare le segnalazioni dell’alpino in torretta, armato con una mitragliatrice MG.

    Io siedo a fianco del pilota del primo mezzo e indico l’itinerario. Alle dieci e trenta arriviamo al luogo dell’appuntamento, un villaggio alle pendici di cime sui duemila metri. Lì ad aspettarci troviamo il Malek e cinque dei suoi figli. Prima di scendere dai mezzi ordino di perlustrare rapidamente la zona. Insieme all’interprete saluto il Malek che mi accoglie affettuosamente. Ci eravamo visti poche settimane fa ad una shura, un’assemblea dei capi villaggio alla quale ero stato invitato a partecipare come ospite. Avevamo parlato di sicurezza, quel giorno. Oggi l’urgenza è l’inverno. Decidiamo di stabilire un ambulatorio di fortuna a casa del Malek.

    Chiamo il medico e i due aiutanti di sanità, un alpino e una alpina, giovani ma determinati, e dico loro di prepararsi: ci saranno un centinaio di persone da visitare. In pochi minuti si sparge la voce e si formano due file: da un lato gli uomini, quasi tutti anziani, dall’altro le donne e i bambini. In passato le donne non si lasciavano visitare da un uomo, perdipiù straniero. Adesso il clima è cambiato, c’è maggiore apertura nei confronti dei militari italiani e quindi maggior lavoro per i nostri sanitari che distribuiscono antipiretici ed aspirine con indicazioni per l’uso tradotte in lingua locale. Sono malanni di stagione. Ma non mancano malattie più gravi che andrebbero curate in ospedale. Alcune donne che hanno con sé addirittura sei figli raccontano di non essere mai state visitate da un dottore.

    Il tenente medico è stupefatto, ma ricorda anche di aver letto le statistiche ONU sulla mortalità infantile e sulla speranza di vita in Afghanistan, paese agli ultimi posti nelle classifiche mondiali. L’architetto scatta alcune fotografie e prende nota con cura dell’ubicazione del punto di scavo potenziale di pozzi per l’acqua potabile. In primavera si potrebbe fare qualcosa: molte malattie sono legate anche alla scarsa disponibilità di acqua, che c’è ma è difficile da estrarre. A volte bisogna scavare per decine di metri prima di trovare la falda. A Kabul esistono numerose ditte specializzate nello scavo che con poche migliaia di Euro sono in grado di realizzare in
    pochi giorni un pozzo dotato di pompa a mano. Prendiamo nota del pozzo ed anche della moria di bestiame, sempre dovuta al freddo.

    La prossima volta cercheremo di far arrivare qui il veterinario militare che risiede a Kabul. Si è fatta ora di pranzo. Gli alpini consumano i panini preparati alla base mentre io sono ospite del Malek e dei suoi quattro fratelli. Ci accovacciamo tutti nella stanza principale, scaldata da una stufa a legna e decorata con tappeti e tele di seta che riportano versetti del Corano. Su un mobile rudimentale è appoggiata una radio a valvole, collegata ad un piccolo gruppo elettrogeno che alimenta anche un caricabatterie per cellulare. I figli più grandi portano tè, frutta secca e delle focacce calde cotte sul momento.

    Le donne non si fanno vedere. Solo le bambine fanno capolino per curiosità ma vengono subito ricacciate dentro dai fratelli maggiori. Parliamo della situazione, del passato ed anche del futuro. L’Afghanistan non è mai stato un posto tranquillo, mi racconta l’anziano capo della comunità. Almeno adesso non c’è la guerra. Ma la gente è povera e aspira ad un minimo di benessere. Uno dei fratelli del Malek ci esprime riconoscenza per il nostro lavoro. È un uomo che ha girato il mondo, ha vissuto a lungo in Germania ed è stato anche in Italia. Mando a chiamare un alpino paracadutista della scorta, un altoatesino: così potrà scambiare quattro parole in tedesco e far riposare l’interprete afgano.

    Parla benissimo la lingua di Goethe e ci spiega che di solito da queste parti c’è diffidenza non solo verso gli stranieri ma anche tra diverse tribù e che noi abbiamo saputo conquistare la loro fiducia. Penso al nostro approccio, sempre rispettoso e mai invadente. Per gli afgani forse è stata una novità. Il dottore riferisce che ha finito le medicine. È ora di andare. Voglio essere di ritorno prima del tramonto. Faccio consegnare al Malek le coperte, i viveri e le candele. Sarà lui a distribuirle. È un personaggio di cui ci si può fidare e dandole a lui accresceremo la sua autorevolezza in seno alla comunità.

    Il territorio lo si controlla anche così. Al ritorno cambiamo tragitto. Via radio mi segnalano che l’elicottero è arrivato, ha scaricato i materiali ed è ripartito alla volta di Kabul portando indietro un alpino febbricitante. Sono da poco passate le 18 quando varchiamo l’ingresso della FOB Sterzing’. Per prima cosa scarichiamo le armi, poi metto in libertà il personale. Hanno il tempo di fare una doccia e di mandare un sms a casa per dire che tutto è andato bene, prima di andare alla mensa. Senza nemmeno passare per il mio alloggio, redigo il rapporto quotidiano e lo inoltro al comando del contingente.

    A cena discutiamo della giornata trascorsa sul campo. Gli alpini di turno in cucina oggi un servizio in cui si alternano tutti quanti hanno preparato un capolavoro: spaghetti aglio e olio, arrosto con patate e torta di mele per festeggiare il compleanno di un sergente, il quale arriva trafelato dall’officina: ha appena finito di cambiare il filtro dell’olio richiesto a Kabul per un BV. Voleva finire prima del tramonto: domattina si parte presto e tutti i mezzi devono essere in ordine. Sono le dieci di sera ed è buio pesto intorno alla base. Aspetto ancora qualche minuto prima di coricarmi.

    Faccio un giro di ispezione, saluto la guardia, il dottore, l’architetto e passo per le camerate, ovvero due piani fatti di tanti moduli prefabbricati grandi quanto un container, con bagni e docce. In ogni modulo ci dormono in quattro, con i bagagli, l’equipaggiamento ed un piccolo televisore che trasmette i programmi dall’Italia. È l’ora del telegiornale, a casa, tre fusi e mezzo dopo di noi. Fa freddo anche laggiù: nevica su tutte le Alpi, riferiscono i reportage. Domani è un altro giorno. Faremo visita al posto di polizia a dieci chilometri dalla Sterzing e poi pattuglieremo insieme le zone circostanti. Ogni giorno una missione diversa. Prima di addormentarmi penso ai miei alpini e mi viene in mente il motto piemontese che ho letto in una nostra caserma: Y Bon A Fe’ T t. Proprio vero.

    Mario Renna capitano brigata alpina Taurinense
    collaborazione del capitano Davide Marini

    (Nota: Il racconto si ispira a circostanze assolutamente reali, vissute in prima persona da me oppure a me riferite da quanti si sono avvicendati nella base che gli alpini hanno costituito nella valle di Musahi, a sud di Kabul). m.r.