Alpini, un tutto con tutti

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    Nella vita, ho sempre creduto che i fatti che determinano qualche cambiamento nel nostro percorso arrivino sempre da segnali estranei alla nostra volontà. La pianificazione e le strategie appartengono alla cultura delle carriere e degli affari. Cose che dovrebbero essere estranee a due categorie di persone, ai preti e agli alpini. Quando a Falcade, alla fine di aprile, il presidente Corrado Perona, la cui “giovinezza” pesca direttamente dal cuore, mi chiese la disponibilità ad assumere la direzione de L’Alpino ne fui un po’ stordito.

    Perché non l’avevo mai ipotizzato, desiderato e neppure fatto alcunché perché ciò accadesse. Lo presi come un segno e mi misi moralmente sull’attenti. Risposi di sì, ma non senza inquietudine. È vero che sulle spalle portavo venticinque anni di giornalismo da professionista, ma governare la famiglia alpina, sia pure sulla carta, sarebbe stata un’altra cosa. Perché qui c’era una famiglia, appunto. Certamente le cose non maturano senza qualche seminatore. A “far la spia” sul mio nome metto in testa il mio predecessore. Con Vittorio Brunello la cordialità è stata da subito spontanea e immediata fin dal primo incontro, qualche anno fa.

    La frequentazione successiva mi avrebbe fatto scoprire la ricchezza del suo animo, schivo come quello dei montanari, ma con tutte le note di un’aristocrazia morale, oggi generalmente in disuso. Acuto nel capire, equilibrato nel riflettere, signore nel tratto. Il mio grazie a lui è molto più di un gesto di riconoscenza. È un atto di stima che va a intercettare quella più generale di chi l’ha conosciuto e frequentato prima di me. Prendo la direzione del giornale in un momento difficile per l’Italia e per l’Europa. La tentazione al pessimismo potrebbe far capolino dietro la porta ogni momento della quotidianità e da qui, a grappolo, mettere in fila i lamenti dei professionisti del malcontento.

    Ciò che mi conforta e mi induce all’ottimismo, fuori da ogni possibile retorica, è uno sguardo disincantato sul Paese reale, quello che non si coniuga con le bizze e i deliri di alcune espressioni di vertice. A confortarmi è l’Italia delle famiglie, che qualcuno vorrebbe considerare retaggio culturale superato, ma che sono, di fatto, gli ammortizzatori sociali della fragilità pubblica, come lo furono in periodi più difficili dell’attuale, quando la guerra portava i figli al fronte, o quando si trattò di rimettere in piedi l’Italia devastata dai conflitti. Oggi sono altre le guerre. Portano altri nomi e altri belligeranti, ma sono ancora le famiglie ad essere al fronte, a combattere con l’unica arma che possiedono, quella dell’amore per i propri cari e per la propria casa.

    A confortarmi è l’Italia dei lavoratori. Il mese scorso abbiamo fatto un sopralluogo nelle zone del terremoto. Vedendo l’alacrità della gente, mi veniva spontanea l’immagine delle formiche quando si profana il loro nido. Nessuna lascia, ma tutte restano lì, incuranti del pericolo a recuperare, aggiustare, ripartire… Come può essere piegato un Paese che ha dentro questa ispirazione? A confortarmi è l’Italia degli alpini. Fuori da ogni possibile retorica. Quelli stessi alpini che hanno sciolto a Bolzano i grumi di ghiaccio dei pregiudizi, che sono sotto il sole dell’Emilia a servizio di amici meno fortunati… Gli alpini che tirano la carretta, dal più piccolo Gruppo fino ai vertici centrali di governo, a libro paga della gratuità e con la schiena curva.

    Sono gli alpini che ho visto negli occhi e nelle parole di Luca Barisonzi, orgoglioso della sua appartenenza, sia pure consegnata alle ferite senza ritorno del suo corpo. Tutto questo rappresenta il Paese reale, vivo, assai migliore di quello virtuale, segnato dagli scandali di troppi e dai privilegi di pochi. Contaminare la società di spirito alpino è il compito che ci sta davanti.

    Contaminarla col virus dell’operosità gratuita, del fare senza che il polline della voracità attecchisca alle mani. Portare dentro al tessuto sociale il senso di un’appartenenza di Corpo che fa degli alpini un tutto con tutti, perché il Paese si trasformi in Patria. Quella Patria che gli alpini emigrati guardano con struggente nostalgia ed orgoglio, fieri di appartenervi e speranzosi che nessuna ombra ne attenui la grandezza… Li penso, seduto alla scrivania, come uno scolaro al primo giorno di scuola. Come un allievo che ha bisogno di imparare da tutti, perché, alla scuola della vita, nessuno è maestro.

    Bruno Fasani