4 Novembre Il significato di una ricorrenza

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    Il Regno d’Italia dopo la disfatta di Caporetto si era rinnovato negli uomini e nei sentimenti: il presidente del Consiglio dei Ministri era Vittorio Emanuele Orlando, mentre il generale napoletano Armando Diaz aveva sostituito al comando delle armate il generale Luigi Cadorna. Ma da Caporetto scaturì soprattutto un sentimento ambivalente: da un lato il rafforzarsi dell’impulso patriottico e di resistenza, soprattutto in una minoranza di intellettuali, e dall’altro la sfiducia della massa nell’attesa di un’imminente attacco e della resa. Che non ci fu.

    Rispetto all’Isonzo, il fronte italiano era arretrato di 200 chilometri e una parziale riorganizzazione delle forze, con l’invio di nuove reclute, contribuì a ridare vitalità. La notte tra il 14 e 15 giugno 1918 iniziò l’attacco frontale austro ungarico che, seppur in alcune posizioni come sul Montello e sul Grappa fu assai intenso, in realtà si disperse su tutto l’arco del fronte. I reparti italiani resistettero e attaccarono, in alcuni luoghi anticipando anche l’iniziativa nemica: sei giorni dopo gli austro ungarici si ritirarono battuti.

    Nei mesi successivi a far naufragare definitivamente le mire dell’Impero concorsero più fattori. Innanzitutto la guerra in Centro Europa che stava volgendo al peggio per le forze degli Imperi Centrali, inoltre la situazione interna era assai delicata, sia perché l’opinione pubblica era ormai insofferente al lungo periodo di guerra, sia perché l’Ungheria il 3 ottobre aveva proclamato la sua indipendenza. La spallata finale arrivò dalle truppe italiane a Vittorio Veneto. Il 29 ottobre un emissario austriaco annunciò ad un Comando italiano avanzato, nei pressi di Avio (Trentino), l’arrivo di un plenipotenziario: il generale Viktor Weber von Webenau incontrò i comandi italiani a Villa Giusti, vicino a Padova. L’armistizio fu firmato il 3 novembre con la clausola che dovesse entrare in vigore il giorno seguente, in modo da dare la possibilità alle truppe italiane di occupare Trento e Trieste.

    Sull’onda dell’entusiasmo la parola Vittoria! era pronunciata in tutto il Paese, nonostante intere zone fossero devastate dalla guerra, l’economia fosse disastrata e si contassero 680mila Caduti, oltre un milione di feriti e 600mila prigionieri. In questa realtà drammatica, l’esercito aveva però ottenuto il risultato di aver riunito quanti per estrazione, lingua e provenienza avrebbero difficilmente potuto incontrarsi. Quei giovani si erano trovati ai confini settentrionali a combattere fianco a fianco, per una causa comune e sotto un’unica bandiera. E, in alcuni casi, nei paesi in prossimità del fronte avevano visto la popolazione che collaborava al loro fianco.

    È difficile dire se il senso di coscienza nazionale maturò da questo spirito collettivista, certo è che in città e paesi spesso lontani dopo la guerra furono eretti monumenti in ricordo dei Caduti e i nomi di quei soldati furono impressi sulle lapidi commemorative. Questa memoria condivisa era presente al Nord come al Sud dell’Italia. A Roma nel 1920 le solenni celebrazioni per il 4 Novembre si svolsero al Vittoriano e un anno dopo all’Altare della Patria, sotto la statua della Dea Roma, fu tumulata la salma del Milite Ignoto, al quale venne conferita la medaglia d’Oro al V.M. Nel 1922, allo scopo di dare risalto alle celebrazioni, il 4 Novembre fu decretato Festa nazionale per l’anniversario della Vittoria , poi Festa delle Forze Armate (regio decreto legge n. 1354 del 1922). Solo dopo la seconda guerra mondiale venne mutato il nome in Giorno dell’Unità nazionale (legge n. 260 del 1949) con l’intento di far risaltare maggiormente lo sviluppo verso l’unione nel nostro Paese e non l’impresa bellica.

    Proprio quel processo di unione, che era iniziato nel Risorgimento ed era proseguito con alterne vicende, sembrò delinearsi con più vigore nella coscienza collettiva dopo l’esperienza della Grande Guerra. Il Regno d’Italia, proclamato dal Parlamento il 17 marzo 1861, era giuridicamente un ingrandimento del Regno di Sardegna, ne manteneva la forma di monarchia costituzionale e lo Statuto Albertino del 1848. Inoltre i rappresentanti del parlamento unitario erano stati scelti da una piccola nomenclatura, poiché erano idonei al voto solo i cittadini che avevano compiuto 25 anni e che pagavano 40 lire all’anno di imposte: su circa 22milioni di residenti, il diritto a votare fu concesso solo al 2 della popolazione, proveniente generalmente dal Nord a causa delle disagiate condizioni economiche del Sud.

    A diminuire ulteriormente il valore universale delle elezioni fu il grande astensionismo che ridusse i votanti alla metà degli aventi diritto. Inoltre, negli anni che seguirono il processo di unificazione territoriale portato a compimento nel 1870 l’Italia era geograficamente riunita ma non era divenuta un’entità nazionale. Oltre ad un territorio comune, per essere tale occorreva il concorso di altri elementi: un complesso di individui legati da una stessa lingua, storia, interessi e tradizioni; un’anima, un’identità e l’organizzazione politica del gruppo sociale. Occorreva cioè che fossero presenti i valori storici di un popolo in quanto identificato in uno o più territori, amalgamato sotto l’egida statale. Certo è che nell’Italia del primo Novecento il meccanismo si perfezionò. Si diede inizio ad una moderna legislazione sociale, si attuò un suffragio (quasi) universale per gli uomini; il Paese uscì dalla recessione.

    Ma per essere nazione occorreva, come disse Joseph Ernest Renan in un discorso alla Sorbona, una grande unione, costituita dal sentimento dei sacrifici che sono stati fatti e da quelli che si è disposti ancora a fare. Essa suppone un passato; ma si riassume nel presente da un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme . Se dunque dopo l’esperienza della Grande Guerra, in quegli uomini e donne che avevano condiviso successi e insuccessi, dolori e gioie, c’erano le condizioni per far germogliare uno dei fattori da cui sviluppare un sentimento comune, ciò non si verificò negli eventi immediatamente successivi.

    Nell’Italia repubblicana le celebrazioni del 4 Novembre proseguirono con alterne fortune. Negli anni ’60 e ’70 concorsero non poco a scolorire l’importanza della ricorrenza la corrente antimilitarista e lo spostamento al primo giorno festivo (la legge n. 54 del 1977 stabilì che il 4 novembre fosse celebrato la prima domenica successiva). Solo negli ultimi due decenni, con la decisione di aumentare l’impiego dei nostri militari nelle missioni all’estero e la presa di coscienza che le Forze Armate sono importanti anche al rafforzamento della politica estera del nostro Paese, il 4 Novembre è stato riscoperto.

    L’omaggio delle più alte cariche dello Stato al Milite Ignoto si ripete ogni anno. Alcune autorità si recano anche al Sacrario di Redipuglia dove sono custodite le salme dei Caduti della guerra del 1915 ’18, a Vittorio Veneto e le commemorazioni avvengono in molte altre località d’Italia.

    Al ritorno alla celebrazioni come nei primi fasti ha influito sicuramente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi; questo un passo del discorso pronunciato nel 2003 al Quirinale: Il 4 novembre deve rimanere, anzi, deve rafforzarsi come solennità civile della Repubblica. Il 4 novembre è un tassello essenziale nel percorso della memoria che ha il suo perno nella Festa del 2 giugno, la nascita, per volontà del popolo, della Repubblica. Le Istituzioni hanno il dovere di irrobustirlo, per consentire alla comunità nazionale di celebrare i propri valori. Giornata dell’Unit&agrave
    ; Nazionale, non soltanto delle Forze Armate: il ricordo degli eroi e delle battaglie della nostra storia risorgimentale non può andare disgiunto dal patrimonio di cultura, di lingua, di arte che ha cementato il popolo italiano, che lo ha portato ad essere libero e unito .

    Matteo Martin

    Pubblicato sul numero di dicembre 2010 de L’Alpino.