Zona franca

    0
    56

    Rubrica aperta ai lettori.

    LA RIVINCITA DEL MULO

    Due buone notizie leggo sul Corriere della sera del 2 marzo scorso, a proposito del lavoro che fanno le nostre truppe, e gli alpini in particolare, in Afghanistan. Le ripropongo per coloro non le avessero lette. In un paginone, un ampio servizio racconta dell’opera di aiuto delle nostre penne nere tra la popolazione locale, mentre in un trafiletto in altra pagina, firmato da Margherita d’Amico, si parla della riabilitazione del mulo, grazie anche all’opera della Facoltà di veterinaria dell’Università di Perugia. In quella sede scrive la d’Amico si fecondano le cavalle ed i piccoli sono subito acquistati da associazioni, aziende agricole, pro loco, per parchi di agriturismo e passeggiate equestri . Il mulo è un eccezionale soggetto di lavoro e da sella. Meno esuberante del cavallo, ancor più robusto dell’asino e adatto a percorrere piste impervie spiega Franco Moriconi, preside della Facoltà . Negli Usa intanto, una crescente passione per il mule , ha prodotto rassegne di modello, albi genealogici, raduni sportivi. Tutti pazzi per gli antichi compagni delle nostre Truppe alpine dice la giornalista cui furono affiancati nel 1872. In parecchi, nel 1991, si dolsero dell’abolizione dell’incarico 21/a: conducente di mulo . Ma ed ecco la bella notizia quando gli alpini paracadutisti hanno affrontato l’ostile e montuoso Afghanistan, il più duro dei quadrupedi è tornato a portare la penna nera . Conclusione. Non ci sono elicotteri e veicoli meccanici che tengano; quando l’esigenza lo richiede non c’è nulla come il mulo.

    Giancarlo Angelini

    (Nota: quelli dei parà non erano muli, ma asini noleggiati dagli afgani. Ma il discorso sull’utilità dei muli non cambia, n.d.r.)

    ESSERE ALPINI

    Ho letto l’editoriale de L’Alpino di maggio… e mi son soffermato qua: Quando, novant’anni fa, i reduci fondarono l’Associazione Nazionale Alpini lo fecero, anche, fissando le regole di appartenenza. Erano regole semplici ma sufficienti: chi si impegnava a far parte dell’Associazione doveva essere un alpino. Era l’unica condizione, perché non servivano altri titoli, né faceva merito particolare la condizione sociale. Alpino bastava: voleva dire tutto, condizionava i rapporti, ogni azione, la vita . Mi pare che allora i nostri vecchi avessero dato una direttiva precisa e chiara. Se dobbiamo seguire le loro indiscusse (ovvie e giuste!!) regole, credo che l’ANA attualmente, con la ‘spinosa faccenda’ degli amici degli alpini… forse vada un pochino oltre la citata regola. Il mio parere ovviamente non conta nulla, ma credo che l’importante è essere coerenti e, da par mio, preferirei che l’ANA, come l’ho vista sempre, rimanga degli alpini … Poi, spero tra tantissimi anni… gli amici potranno ereditare la nostra storia, ma non il nostro nome!! ANA uguale associazione d’arma di militari ed ex militari che hanno prestato il loro servizio alla Patria nelle Truppe alpine. Sbaglio?

    Stefano Camplani

    STORIA DI UN CAPPELLO

    Sono un artigliere alpino classe 1931, ho prestato servizio nella celeberrima caserma Battisti a Maia Bassa, Merano, nel 1954, al 5º Reggimento di artiglieria da montagna. Da allora sono socio ANA e ho partecipato a numerose sfilate nazionali ed a iniziative locali. Mio figlio ha avuto l’onore di prestare servizio come sottotenente medico di complemento nello stesso reggimento che ai tempi era di stanza a Silandro. Il mio cappello è stato sempre ben visibile a casa mia e sul mio capo durante le adunate. Abito vicino ad un istituto di religiose della famiglia di San Paolo. Un giorno di dicembre, mentre sistemavo il giardino, parlando con una religiosa vengo a sapere che suo fratello, emigrato in Canada tanto tempo fa, è purtroppo in fase terminale di un male inguaribile. La religiosa era dispiaciuta di non poter accontentare le ultime volontà del fratello morente e cioè di seppellirlo con il suo vecchio cappello alpino dell’ 8º battaglione della Brigata Julia, congedo nel 1952. Era stata alla vecchia casa con gli altri suoi fratelli ma non erano riusciti a trovare il cappello. Il fratello era emigrato a Windsor nella regione dell’Ontario, nel 1957, e da allora non era più tornato in Italia; oramai gli restavano ancora pochi mesi e l’ultimo desiderio di riavere il suo cappello non era ancora stato esaudito. Non ho avuto un solo attimo di esitazione, ho preso dalla mensola il mio vecchio cappello d’ordinanza e l’ho spedito all’indirizzo che mi aveva fornito la religiosa. Non solo il mio cappello con la sua magnifica penna è arrivato a destinazione a casa di Giuseppe Slongo, friulano di Oderzo, carpentiere padre di tre figlie che aveva ancora l’Italia e gli alpini nel cuore, ma era vicino a lui sia al funerale che alla sepoltura. Questa è la storia del mio cappello che per 55 anni è sempre stato il mio amico fedele ma adesso so che riposa in buone mani. Sono rimasto senza cappello?No! Un bravo alpino ha sempre la sua riserva che ha la stessa dignità dell’originale quando non ha tanti fronzoli addosso.

    Sergio Zavarise Negrar (Verona)

    LE DONNE DEGLI ALPINI

    Sessant’anni or sono erano madri, sorelle, spose. E quando arrivava la ‘cartolina rosa … ci tocca di partire … con la tristezza in cuore …’ ci accompagnavano al treno, alla tradotta che parte da Torino … e la va diretta al Piave, cimitero della gioventù’ orgogliose del figlio, del fratello, del marito alpino. All’apparenza serene, perché volevano partissimo per il fronte con il ricordo del loro sorriso, ma in cuor loro piene di angoscia per le incognite che il futuro ci riservava, presaghe che molti di noi non sarebbero ritornati a baita. Ti raccomando, riguardati, stai attento, sii prudente’ ‘Sì mamma, non temere Rosina, sta tranquilla Maria, tornerò presto, ritornerò’. ‘E non dimenticarti le calze di lana, sono proprio di lana buona, te le ha fatte la nonna …’ Avevamo vent’anni e la speranza nel cuore. Ma sapevamo di mentire, fingevamo di ignorare che molti di noi non sarebbero più tornati. E che non per tutti sarebbe finita bene … tornerò mamma …’, ma intanto cantavamo. Eravamo giovani e cantavamo, perché non sapevamo cosa fosse la guerra. Perché quello che allora ignoravamo è che la guerra non finisce mai bene, perché la guerra la perdono tutti, perché la guerra non la vince mai nessuno, perché la guerra, anche quando ti va bene, quando ne sei uscito in apparenza indenne, te la porti nel sangue per tutta la vita. Ma se per molti di noi la guerra è stata dura, per le nostre donne è stata anche peggio. Per noi, almeno, quando arrivava la sera, di solito ritornava la quiete, rotta di tanto in tanto dall’improvviso, rabbioso susseguirsi delle raffiche di mitra delle pattuglie che si scontravano nella notte … questa è la ‘Machinen pistol’, sono tedeschi … questi che rispondono sono i ‘Thompson’ americani e gli ‘Sten’ inglesi… adesso sparano anche i nostri, è il mitra ‘Beretta’ … Perché noi, quando giungeva la sera e un’altra giornata era trascorsa e scoprivamo d’essere ancora vivi, ci gettavamo nei nostri giacigli, quattro rami secchi sulla neve e la tenda a ripararci in qualche modo, sperando in cuor nostro che anche l’indomani una buona stella ci proteggesse … Le nostre donne, no. Lontane da noi, prive di notizie … inginocchiate a pregare, tutte le sere, che il loro uomo figlio, marito, padre venisse risparmiato … ‘pensa alpin, la tua casetta, se la rivedrai ancor’ … quella casetta dove una mamma, una sorella, una sposa gira
    vano e rigiravano il mestolo per cuocere a dovere la polenta. E loro, le nostre donne, ci accoglievano con il loro calore, con il sorriso. Quelle donne che, da quando eravamo partiti per la guerra, non cantavano e non sorridevano più. Pregavano e piangevano. Pregavano che tornassimo; piangevano, il volto rigato di lacrime, quando giungeva notizia che il Galilea, affondato durante il viaggio di ritorno dalla Grecia, era diventato la tomba della Julia, o quando dallo scarno bollettino di guerra trapelava la notizia che le cose, nella steppa russa, si erano messe male; ancora lutti, altri lutti, troppi lutti. ‘Lassù nella casetta, sperduta sui confin.. viveva una vecchietta, la madre di un alpin …’

    Sergio Pivetta Milano

    Pubblicato sul numero di settembre 2008 de L’Alpino.