Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    RATZINGER E LA SAPIENZA

    Il Rettore Magnifico dell’Università di Roma La Sapienza , Guarini, ha avuto la bella idea di invitare, per l’apertura dell’anno accademico, il professore emerito Ratzinger, alias Sua Santità Benedetto XVI. Apriti o cielo! Una sparuta minoranza di docenti e studenti universitari, lancia in resta, inizia la più laica delle crociate: inopportuna la visita del Pontefice; la scienza è e deve rimanere laica; netta la divisione fra il sapere e la religione; inaccettabile dare la parola ad un uomo di fede nel tempio della cultura. In poche parole, sempre quella sparuta minoranza, rumorosa e rabbiosa, ha rivolto al Papa l’inequivocabile messaggio di starsene a casa, perché persona non gradita. E la maggioranza dov’era?Quella maggioranza che avrebbe potuto prendere posizione da uomo eretto, cioè in piedi; chissà perché, come le accade spesso, ha assunto anche in quest’occasione la sua abituale posizione da uomo prono, cioè carponi. Avrei preferito usare un’altra espressione per spiegare la posizione prona, ma la decenza me lo vieta. É poi noto a tutti che la maggioranza è quasi sempre silenziosa. Per giorni nessuna delle personalità più importanti delle istituzioni si è fatta sentire. Papa Benedetto XVI è rimasto solo a cavare, per laici e cattolici, le castagne dal fuoco. C’è da immaginarlo, il Papa, nei suoi appartamenti privati in Vaticano, a sfogliare la margherita: vado o non vado?Poi la decisione più giusta, più intelligente: non vado!, la più dolorosa delle rinunce. La Santa Sede dà la notizia: Benedetto XVI, vescovo di Roma, non parteciperà all’apertura dell’anno accademico dell’Università La Sapienza , oltretutto fondata da un suo predecessore sulla Cattedra di Pietro. Allora e solo allora, a notizia pubblicata, dalle più alte cariche dello Stato e da tutto il mondo politico ed imprenditoriale, tutti si sono affrettati a fare arrivare all’orecchio del Papa la solidarietà, il consenso, la stima, l’affetto e la riprovazione per l’assurdo affronto patito. Tutti, dopo, sono accorsi in difesa del dialogo fra fede e scienza. Ma il Santo Padre bisognava difenderlo prima. Prima della sua sofferta decisione. Prima che i ragli della Sapienza salissero al cielo.

    Enzo Grosso Biella

    UN SIMBOLO, TANTI RICORDI

    Sulla mia libreria in salotto, vi sono i miei due cappelli alpini, in mezzo la barca in legno costruita da mio papà ormai scomparso. Il primo cappello è quello da congedante fattomi fare alla fine della naja, con le stelle, il cordoncino, gli stemmi della brigata alpina taurinense, gli incarichi (radiofononista conduttore 41/a) e due medaglie, una dell’Adunata di Cuneo, e l’altra del campo estivo fatto a Castelnuovo Garfagnana. L’altro è quello semplice, della naja, che adoro e preferisco. Alla sera quando guardo la televisione, spesso alzo gli occhi e lo guardo, e ogni volta il cuore mi batte forte, perchè ad ogni sguardo coincide un’emozione, un ricordo, un rimpianto, ad esempio quello di aver cambiato idea l’ultimo mese e non essermi raffermato, rimpianto attutito dal mio impegno nella protezione civile del gruppo di Peveragno, che mi fa sentire come se continuassi a essere operativo. Quando a 18 anni, andai a fare la visita dei tre giorni, al distretto militare di Genova Sturla, allora abitavo a Rapallo, il terzo giorno mi chiesero dove volevo svolgere il servizio militare. Risposi, in marina, come mio papà, o nell’esercito, e quando mi dissero che dovevo andare negli alpini, all’oscuro delle emozioni che avrei provato, ci rimasi un po’ male. Ma mio padre con molta dolcezza mi disse: ‘Siine fiero, perchè è il più bel corpo militare che esista’. Lo scoprii subito la sera del 15 ottobre 1980, quando un automezzo mi prelevò, anzi ci prelevò dalla stazione di Cuneo, portandoci alla caserma di San Rocco Castagnaretta dove avrei fatto il CAR. Ricordo, dopo il giuramento, il mio arrivo a Boves alla 106ª dove ero stato destinato e poi aggregato alla cp. comando di Borgo San Dalmazzo. Ero alle dipendenze del capitano Cravarezza, ora generale, ma che per me rimane sempre il mio capitano che ho rivisto, con molto piacere all’Adunata di Cuneo e dopo più di 27 anni mi ha riconosciuto subito stringendomi la mano con affetto e facendomi venire un nodo in gola. Ricordo il corso da radiofonista alla caserma Montegrappa a Torino, o i corsi di sci alla Panice a Limonetto o i campi estivi ad Aulla e Castelnuovo Garfagnana, in Toscana. Quando guardo il mio cappello, rivedo tutto questo, ed è un’emozione continua. Però a volte penso alla sospensione della leva militare, e mi rattristo pensando a quanti ragazzi non possono più vivere queste emozioni, perchè la naja, prima di partire sembra una perdita di tempo, una tragedia per molti, ma alla fine tutti piangono quando all’ultima sera, si sente il silenzio fuori ordinanza, l’ultimo silenzio militare, l’ultimo giorno che vedi gli amici, i commilitoni. Ed è un peccato inoltre, ma questa è una mia esternazione, non sentire più parlare piemontese, ligure, veneto; fa una certa impressione sentire un alpino parlare napoletano, siciliano, pugliese, non per una questione etnica, ma perchè lo scopo del generale Perrucchetti, era quello di avere un Corpo che difendesse le Alpi, con gente delle Alpi. Ma i tempi cambiano e i nostri ragazzi oggi hanno dimostrato di meritare di essere alpini, e di aver dato, purtroppo, anche la loro vita in missioni di cui a volte, non si capisce bene la ragione.

    Vladimiro Tanca

    UN CAPPELLO TAUMATURGICO

    Lavorando in un reparto psichiatrico ho spesso a che fare con problemi sociali e patologie dagli aspetti sconcertanti. Nei giorni scorsi, allertati da una telefonata, è giunto in reparto un quarantenne che vagava per i campi, dopo avere abbandonato famiglia e impiego. Nella campagna della bassa bresciana in gennaio le condizioni non sono chiaramente come sulle alte cime, ma le temperature non sono certo mediterranee. Particolarità, è che portava in testa da giorni, il suo cappello con la penna, e con quello è giunto con tranquillità in ospedale: il cappello alpino come ultima certezza, mentre tutto intorno a lui il mondo crollava, l’ultima sicurezza, l’ultima cosa stabile, prima di uscire di casa. Allora mi sono trovato a pensare che forse uno dei tanti motivi perchè il senso di appartenenza che hanno gli alpini non ha paragoni, era la consapevolezza di aver comunque fatto una cosa importante. La naja trascorsa in una caserma nella pianura friuliana e a far da autista a Roma ai papaveri, può darsi certo che abbia dato diverse frustrazioni. Ne conosciamo tanti che guardano con stupore ai nostri ricordi formativi e alla nostra difesa dei valori acquisiti durante la leva alpina. I pochi, come il sottoscritto, che hanno avuto modo di vedere entrambe le realtà ne sentono ancora di più la differenza. Per tre mesi fante in un luogo in cui le montagne non si vedevano nemmeno nelle giornate migliori, tanta disorganizzazione, e poi, finalmente, alpino. Sappiamo valutare bene la differenza perchè noi l’abbiamo vista. La differenza era talmente gradevole che, finalmente al Corpo, anche i compiti più rognosi diventavano sopportabili di fronte al ricordo di solo qualche mese prima, della inutilità di quel periodo, della ricerca annoiata di come far passare le ore, i giorni. Essere al corso roccia tra le Dolomiti, o al campo, lassù, tra alpini da generazioni, rendeva molto più sopportabile l’anno trascorso lontano da casa, fino a farlo oggi ricordare e giudicare non solo con mal
    inconia ma come un momento importante, spesso anche più importante di una scuola perchè ti ha insegnato a cavartela, e in qualsiasi situazione. Come riuscire a far capire che la naja poteva essere diversa, utile per noi allora, come lo avrebbe potuto essere domani, per i nostri ragazzi?

    Sergio Boem Gruppo di San Bartolomeo Serniga