Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    UNO, TRECENTOMILA

    Ogni tanto mi capita di dire, con le persone più varie, che sono un Alpino. Appena pronunciata la parola Alpino, mi accorgo che sul loro viso appare un sorriso. Un sorriso che è sempre di simpatia e di grande stupore. Dicono che sarete in trecentomila . Io ripenso allora a tutte le adunate vissute e rivedo quei fiumi di penne nere avanzare per la stessa strada di tante Città. Ci penso spesso poiché quella visione mi dà una grande forza proprio nei momenti nei quali mi sento stanco e troppo piccolo per affrontare le grandi battaglie quotidiane. E mi chiedo quale sia il magnifico mistero che unisce trecentomila, e più, persone, provenienti da ogni parte d’Italia ed anche dall’estero, con vite diversissime tra loro, in quelle sfilate favolose. Trecentomila persone, insieme, con gioia viva, con gli sguardi avanti, con commozione forte, con quella forza misteriosa dentro! Quasi certamente non esiste un altro caso al mondo nel quale si trovano ogni anno tanti che comunicano a tutti un bellissimo sogno. Ho pensato tantissime volte a quel sogno che mi aiuta a vivere senza paura nell’affrontare le forze del male e che mi riempie il cuore di gioia. E ho capito che, forse più che un sogno è una realtà, grande come un bellissimo sogno. È la realtà formata da tante vite vissute operosamente, con coraggio quotidiano nel compiere il proprio dovere nel ricordo grato di tutti gli Alpini andati avanti, magari nel compiere più del proprio dovere, per esempio nelle numerosissime sezioni e gruppi che questo fanno, nel silenzio discreto del fare senza voler apparire. E queste vite, quel sogno, se li portano appiccicati sul viso di ciascuno, nello sguardo sereno, nel passo unico nell’avanzare vicini e compatti, senza alcuna incertezza, con il rumore di un unico scarpone: trecentomila Alpini nel giorno della grande festa. Poi si torna a casa. Ma nessuno resta solo. Si torna a casa con quel sogno, con lo sguardo sereno, continuando a sentire la presenza dei compagni vicini e compatti nel suono di un unico scarpone. A molti potrà sembrare strano: si torna a casa in trecentomila, ma non ciascuno a casa sua: trecentomila a casa di ciascuno. Grazie Alpini di tutta Italia.

    Ludovico Dotti

    UNA STRADA CONDIVISA

    Al convegno della stampa alpina a Viareggio il presidente Perona ci ha detto chiaro e tondo che nell’ANA non c’è spazio per i rassegnati cronici, i mugugnanti senza proteste alternative, i bastian contrari per partito preso e peggio ancora, per i disfattisti accaniti che, troppo spesso, dipingono scenari a tinte fosche su presente e futuro associativo. Noi siamo tra coloro che coltivano una visione in positivo del futuro, senza nasconderci le reali difficoltà che ci vedono impegnati ogni giorno nella gestione dell’Associazione, delle sezioni e dei gruppi. Perché ci crediamo?Perché continuiamo ad avere occhio attento al passato (leggi: tradizione) e un occhio altrettanto attento al presente e al futuro, ma non siamo strabici. Ci vediamo perfettamente e siamo andati a Cuneo proponendo slogan che recitavano così: Abbiamo un grande passato, avremo un grande futuro , Non può temere il futuro chi rispetta il suo passato , Nel solco della tradizione volontà di rinnovamento , L’ultima sfida degli alpini: rinnovarsi nella tradizione . Agli scettici e ai poco convinti diciamo: La moda passa, la storia no: così gli alpini continuano , anche se loro sembrano non essersene accorti e alzano le spalle in segno di disinteresse. Sinceramente non sappiamo quale spazio potrà esserci per costoro nell’ANA dei prossimi anni. Spazio, invece, ci sarà sempre per chi crede nei valori fondanti nella nostra Associazione, per chi ha idee e coltiva un progetto, anche se entra in conflitto con altri, perché ogni sodalizio può e deve prosperare nella contrapposizione dialettica quando gli attori del dibattito sono sinceri, leali e intellettualmente onesti. Se non lo sono, il loro apporto sarà senza dubbio nocivo. Ricordiamoci però che quando si è presa una decisione, all’unanimità o a maggioranza non importa, ci vogliono unitarietà d’intenti e più solida volontà di proseguire sulla strada condivisa. Da lì in poi chi rema contro si assume la responsabilità di agire a sfavore degli interessi associativi e ne dovrà rispondere, soprattutto moralmente, di fronte a tutti i soci.

    Dino Bridda Belluno

    ALLE AQUILE DEL 6º ALPINI

    Alle aquile del 6º Alpini!: sono le prime parole di uno scritto su una grande targa scolpita in bronzo che si trova in piazza Bra, a Verona; l’ho letto per la prima volta una sera in libera uscita dalla caserma Mastin della Scala, nel centro della bella città veneta. Dicevano allora che il servizio militare matura l’individuo, ma quando ricevetti la cartolina precetto nella quale era scritto che la mia destinazione era artiglieria da montagna, cioè un reparto inserito in una brigata alpina, c’ero rimasto molto male. Pensavo ai muli, animali per me poco raccomandabili, che mi mettevano paura; giudicando da quelli che vedevo trasportare la legna nei boschi vicino a casa mia, mi sembravano animali imponenti, potenti ed irascibili con i quali non volevo avere nulla a che fare. Diventai capo pezzo di un reparto completamente meccanizzato. Comunque benché in tempo di pace, ho provato disagio a trovarmi lontano da casa, dai miei cari dal mio lavoro, dai miei coetanei, dal mio Mugello; mi aveva detto mio padre che lo sbalordimento che si prova stando lontano dal proprio ambiente, sottoposto ad ordini secchi e precisi si può ammorbidire facendo perno sui propri compagni, con i quali condividere tutto ciò. Ma quando arriva la prima lettera da casa, è difficile resistere all’emozione. A quei tempi, chi per cause fisiche, o per scarsità toracica non veniva accolto nell’esercito, dalle mie parti veniva chiamato ‘scarto di governo’. Certo che adesso è lontano il tempo in cui si pensava al Tedesco e all’Austriaco come a nemici, e questo è un bene molto grande perché l’unica animosità consentita tra europei, dovrebbe essere per cause sportive, tecnologiche o scientifiche. I racconti di mio suocero, che era un ‘ragazzo del ’99’ testimoniavano l’amore dei giovani che sacrificarono la propria vita sulle rive del Piave. I tedeschi hanno attraversato il Piave . Ed allora ognuno, forse col cuore in gola dalla paura (che io credo sia una componente del coraggio) si sentiva in dovere di fare scudo ed opporsi a che i nemici non arrivassero a Venezia. Non c’era distinzione fra nord e sud, ed il lombardo si gettava nella mischia accanto al siciliano, ed i poco più che scugnizzi napoletani c’erano anche loro sul Montello e sul Grappa. Che le penne insanguinarono a prova di ferro fuoco e valanghe per un più libero volo , dice il seguito dello scritto di piazza Bra. Leggendo queste parole pensai allora che c’erano stati prima di me altri giovani con la penna nera che avevano scritto la storia col proprio sangue. Il cappello che avevo in testa era stato testimone di un tipo di amore ben più doloroso e profondo, e da quel momento sentii nel mio cuore un sentimento di orgoglio per essere stato scelto per questo Corpo. Più avanti, in occasione di una adunata nazionale, stringendo la mano ad un vecio sul cui cappello c’era il distintivo con le spade incrociate (della campagna di Russia) mi sono commosso fino alle lacrime. Se mi stringe la mano uno come lui dissi tra me è segno che mi riconosce come proprio erede . E questo per me è stato veramente il massimo.

    Valerio Pieri San Piero a
    Sieve (FI)