Quel suono di tromba nella nebbia

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    DI CESARE LAVIZZARI

    Sapete come succede: si arriva in rifugio, sudati e stanchi, dopo aver percorso la magnifica strada delle 52 gallerie e ci si trova tutti assieme attorno ad un tavolo, affratellati dalla fatica e dal comune obiettivo: l’omaggio ai Caduti del Monte Pasubio. E così mi trovo a chiacchierare con un ragazzo in divisa che non fa parte, però, del plotone comandato di servizio. Mi racconta di essere di Arsiero e di aver chiesto di poter intervenire a questo pellegrinaggio alla Montagna che sente sua. Ci scambiamo battute sulla leva e sui professionisti, sulle differenze e anche sulle diffidenze che ancora ci sono tra noi

    Ragazzo sveglio e simpatico, il caporal maggiore Francesco Pozzo, ventotto anni, da sei in servizio permanente effettivo alla Fanfara della Julia. Terminato il pranzo, nonostante il tempo non prometta niente di buono, si parte di nuovo; destinazione: i Denti italiano e austriaco. La salita ci impegna per poco più di un’ora. La nostra giovane guida ci racconta la storia di ogni sasso e i movimenti più rilevanti del fronte. Certo possiamo solo immaginarli, perché siamo avvolti dalla nebbia. Ci dicono che è normale: il Pasubio è così. Continuiamo la salita e a stento possiamo vedere chi ci precede. Siamo soli con la Montagna e con le sue storie di sacrificio, di sofferenza, ma anche di valore e di amore autentici. Le nebbie continuano ad andare e venire: ogni tanto scorgiamo qualche cosa che immediatamente ci viene nascosta.

    Mi trovo a pensare che pare proprio una giornata propizia per sferrare l’assalto: il nemico non riuscirà a vederci fino a quando non saremo proprio sotto le sue posizioni, ma ormai sarà tardi. Speriamo che la nebbia non svanisca proprio quando saremo a metà strada, allo scoperto, a dover fare i conti con le mitraglie avversarie e senza alcuna possibilità di riparo. Pensavano questo quei ragazzi di novanta anni fa?Forse . E provo un senso di vergogna, perché poco prima mi sono lamentato della fatica. Loro, quella strada l’avevano percorsa tante volte e ben diversamente equipaggiati.

    Forse, anzi di certo, avranno avuto la stessa nebbia, ma un ben diverso peso sulle spalle e soprattutto sul cuore. Questi pensieri mi frullano in testa anche quando la nostra guida, ormai giunti sulla selletta che separa i denti italiano ed austriaco, ci racconta la storie delle mine, di quelle mine che hanno fatto così tanti morti e che sono riuscite, persino, a distruggere parte del dente italiano. Quella frana l’abbiamo appena percorsa in discesa e stentiamo a credere che sia opera del tritolo. 70 morti quel giorno solo perché gli italiani avevano piazzato una mina che sarebbe dovuta scoppiare un’ora dopo ed avevano arretrato il grosso delle truppe.

    Solo 70 si fa per dire. E ci racconta anche la leggenda del tenente Urli (medaglia d’Oro) morto proprio in quel punto dopo trentasei ore di durissimo combattimento. Il corpo non è mai stato ritrovato e la leggenda vuole che il tenente, in procinto di prendere i voti sacerdotali, sia rimasto sul posto a vegliare i morti del Pasubio. È in quel momento che tre squilli d’attenti ci travolgono. Non possiamo vedere da dove provengono ma li sentiamo forti e chiarissimi rompere il silenzio della Montagna. E mentre i nostri occhi cercano di scrutare nella nebbia, le note strazianti del silenzio italiano prima, austriaco poi, ci colgono del tutto impreparati.

    Siamo tutti sull’attenti ma nessuno di noi riesce a portare la mano al cappello in segno di saluto. Siamo paralizzati, come ipnotizzati da quella melodia: un suono che sembra provenire dalla Montagna e dalla sua storia. Sembra quasi che sia il ten. Urli a suonare per cullare il riposo dei suoi ragazzi, di tutti quei ragazzi italiani e austriaci ormai affratellati nel sonno della morte. È solo con gli squilli del riposo che i nervi si sbloccano; come d’incanto si dirada anche la nebbia e riesco finalmente a vedere lassù, arroccato su un roccione della frana del dente italiano, un alpino in divisa con in mano la sua tromba. È ben visibile la drappella della Julia.

    È il primo caporal maggiore Pozzo che in silenzio, senza che ce ne accorgessimo, si è nascosto dietro il masso e ha preparato lo strumento che portava nello zaino. Poi, quando la nebbia lo ha favorito, è salito in piedi sulla roccia e, a modo suo, dominando l’intera valle, ha reso omaggio ai tanti Caduti del Pasubio. Anche lui è visibilmente emozionato, la tromba ancora stretta tra le mani, un attenti rigido che non si rilassa neppure al termine dell’esecuzione: gli ci vuole qualche minuto per digerire l’emozione. Ho come l’impressione che anche per lui quel suono sia venuto da altrove anche se era suo il fiato in quella tromba.

    Ordinatamente ripone la tromba nello zaino e ci raggiunge. Non ci diciamo nulla, gli stringiamo la mano, lo guardiamo negli occhi e ci rimettiamo in cammino verso il dente austriaco per poi tornare al rifugio. Solo dopo cena siamo in grado di ringraziare il caporal maggiore per l’emozione irripetibile che la sua sensibilità ci ha regalato. Anche di questo sono capaci i nostri ragazzi in divisa. Sì! Anche di questo. E dovremmo preoccuparci del nostro futuro? Grazie primo caporal maggiore Pozzo, grazie di cuore!