Le foibe ancora aperte nei cuori

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    Sessantacinque anni fa, il 10 febbraio 1947, a Parigi veniva firmato il trattato che toglieva all’Italia ed assegnava alla Jugoslavia Fiume, il territorio di Zara, le isole Lagosta e Pelagosa, gran parte dell’Istria, del Carso triestino e goriziano e l’alta valle dell’Isonzo. Trieste, con il suo entroterra giuliano ed istriano, entrò a far parte del neo costituito Territorio Libero di Trieste, diviso in Zona A, sotto amministrazione angloamericana e Zona B, sotto amministrazione jugoslava.

     

    L’opera di snazionalizzazione era iniziata con gli infoibamenti del settembre 1943 in Istria e poi con i ripetuti bombardamenti terroristici angloamericani (ma voluti da Tito) che distrussero quasi completamente Zara, città interamente italiana. L’esodo degli italiani, cominciato nel maggio del 1945, dal 10 febbraio del 1947 diventò massiccio: l’esperienza del settembre 1943 aveva chiaramente dimostrato quale sarebbe stata la loro sorte con l’arrivo dei partigiani di Tito. Furono oltre 250.000 gli esuli di quei tragici giorni, circa 300.000 se si calcola lo stillicidio di partenze precedenti e successive.

    Sembrano numeri piccoli, ma sono enormi se messi in relazione alla popolazione di quelle zone. Dalla città di Pola partì il 98% della popolazione. Analoga sorte toccò a Fiume, Zara, Parenzo, Umago, Capodistria che si svuotarono dei loro abitanti italiani, per essere rimpiazzati da Tito con serbi, bosniaci e montenegrini, ma soprattutto croati e sloveni (questa mescolanza si rivelò poi foriera di nuove sventure con la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991).

    L’Italia mise a disposizione alcune navi per il trasporto dei profughi, ma fu il piroscafo Toscana quello che venne utilizzato maggiormente, con 12 partenze da Pola. Furono poche cose gli effetti personali che i profughi riuscirono a portare via. Qualcuno riuscì ad imbarcare sul Toscana qualche baule, qualche mobile, ritratti di cari estinti che però furono costretti ad abbandonare nei porti di sbarco, prima della loro diaspora in Italia e soprattutto all’estero ed oltreoceano. Come nel febbraio 1947, faceva freddo anche il 10 febbraio 2012 nello spiazzo antistante la foiba di Basovizza (Trieste) dove si commemorava il Giorno del Ricordo dell’Esodo e delle Foibe.

    Erano presenti il sindaco di Trieste Roberto Cosolini con le altre autorità militari e civili, il vescovo mons. Giampaolo Crepaldi, un picchetto armato, i gonfaloni dei Comuni di Trieste e di Muggia, un folto pubblico, le associazioni degli esuli e dei familiari delle vittime delle foibe, le Associazioni d’Arma coi loro stendardi. Ma, quella che si notava di più per la sua consistenza, era la nostra Associazione, con oltre 300 alpini, il Labaro scortato dal presidente nazionale Corrado Perona e alcuni consiglieri nazionali, una ventina di vessilli e una cinquantina di gagliardetti. Freddo e bora forte al punto che si stentava a stare in piedi e gli alfieri faticavano a tenere in posizione i vessilli.

    Gli organizzatori hanno deciso di ridurre la durata della cerimonia: schieramento, ingresso del presidente Perona e del Labaro degli alpini salutato dal picchetto militare e da tutti gli astanti, ingresso dei gonfaloni municipali, alzabandiera, deposizione delle corone d’alloro, pochi e brevi discorsi. Per l’inclemenza del tempo, non è stato possibile celebrare la Messa. Ma bisogna attendere il presidente del Senato on. Schifani che, sebbene un po’ in ritardo è arrivato e ha deposto una corona d’alloro ai piedi del monumento che copre la foiba di Basovizza. Oramai tanti esuli che hanno vissuto questo dramma non ci sono più: molti di loro sono morti con la tristezza nel cuore per una Patria che, finché erano in vita, non ha capito il loro desiderio di sentirsi italiani.

    Noi alpini giuliani siamo sempre stati in prima linea per ricordare questi tragici eventi ed onorare le vittime. Nel vedere la partecipazione di tanta gente a questa cerimonia, proviamo una strana commozione, che è amarezza e gioia nello stesso tempo, per il sacrificio negato e dopo tanti anni riconosciuto.

    Dario Burresi