Quando si pensa alla Campagna di Russia si pensa inevitabilmente al freddo e alla neve, due elementi che tante sofferenze hanno causato ai nostri soldati impegnati su quel fronte. E la neve pareva aver giocato un brutto scherzo agli alpini abruzzesi che si erano visti costretti a rinviare la tradizionale manifestazione per la commemorazione del sacrificio della Julia, ed in particolare del battaglione L’Aquila, nelle cosiddette battaglie di Natale al quadrivio insanguinato di Selenyj Jar.
Il ritardo di un mese poteva far pensare a tante defezioni ma il dinamico gruppo di Isola del Gran Sasso e la sezione Abruzzi hanno tenuto duro ed alla fine hanno vinto questa scommessa. Così, in una splendida giornata di sole, ai piedi del Corno Grande del Gran Sasso, un incredibile numero di alpini si è ritrovato ad Isola per partecipare alla commemorazione che, quest’anno, si è svolta in forma solenne. Dietro al picchetto in armi del btg. L’Aquila e le numerose autorità, il Labaro, scortato dal presidente Perona, dal comandante del 9° Alpini col. Cristoni e da numerosi consiglieri nazionali ha aperto la lunghissima sfilata degli alpini che dal centro del paese si è snodata sino a raggiungere il santuario di San Gabriele, dove ad aspettare il corteo c’era anche il gen. Ranieri, comandante della brigata Taurinense.
Una trentina i vessilli delle Sezioni consorelle ed oltre 200 vessilli di Gruppo hanno fatto da corona agli alpini stimati nell’ordine di circa 10-15.000 persone. Tra loro, con immenso piacere, ho incontrato anche l’avv. Luigi Prisco con in mano il cappello del nostro Peppino che per l’Abruzzo ha sempre avuto un amore sconfinato e circa una decina di reduci, segnati dall’età ma con lo sguardo sereno e benevolo. Ed allora mi sono soffermato a pensare a cosa potessero aver passato queste persone 70 anni or sono quando dal caldo delle buche scavate presso il Don sono stati prelevati, fatti salire in fretta e furia su qualche autocarretta e catapultati nella più tragica esperienza che la storia militare ricordi, al quadrivio insanguinato di Selenyj Jar. Avranno certo intuito che la situazione era grave se lo spostamento avveniva addirittura a mezzo di autocarrette. Ma non credo che abbiano potuto nemmeno immaginare il dramma del quale sarebbero stati attori.
Non potevano immaginare che si sarebbero trovati a combattere per circa un mese all’aperto, con una semplice coperta per ripararsi dal freddo terribile. Non potevano immaginare che avrebbero visto i loro compagni morire, uno ad uno, pur di non lasciare terreno al nemico, spinti solo dalla consapevolezza di dover fare fino in fondo il loro dovere per proteggere i fratelli al fronte. Non potevano immaginare che, dopo poco più di un mese, avrebbero fortunosamente affrontato il tragico ripiegamento e le gigantesche battaglie che servirono a rompere l’accerchiamento e tornare finalmente a casa. Ma quello che non potevano certo immaginare era che, una volta tornati, quella stessa Italia che in Russia li aveva mandati, avrebbe fatto di tutto per nasconderli e per dimenticare il sacrificio dei loro compagni morti e dispersi nella steppa o ancora detenuti negli orrendi campi di sterminio sovietici.
Questo proprio non lo potevano immaginare. E, allora, mi domando perché quel sorriso sereno? La risposta è semplice: perché gli alpini, 70 anni dopo, ancora ricordano. Perché loro non si sono persi d’animo e hanno fatto tutto il possibile, non solo per evitare che un simile sacrificio fosse dimenticato, ma anche per continuare ad essere buoni italiani. Perché loro hanno saputo prenderci per mano ed insegnarci tutto ciò. Ed oggi raccolgono un frutto al quale forse, nemmeno loro hanno creduto sino in fondo. Hanno certo sperato che sbocciasse, ma non potevano immaginare che crescesse così rigoglioso. Ma oggi quel frutto è lì sotto i loro occhi e il loro sorriso sembra dire ai loro fratelli rimasti nella steppa: “Non vi abbiamo dimenticato mai e siamo riusciti ad inserirvi nel cuore di tanti alpini e di tanti italiani.
Abbiamo fatto fino in fondo, e come sempre, il nostro dovere”. E il loro sguardo verso di noi sembra dire: “Bravi bocia, avanti così! La strada è quella giusta! Non dimenticate mai e fate in modo che il ricordo si perpetui oltre la vostra stessa esistenza. Fatelo per i ragazzi che abbiamo lasciato nella steppa, fatelo per la nostra bella Italia”. Quasi lo avessero sentito, gli alpini abruzzesi si sono presentati con uno striscione tricolore di 99 metri (Jemo’nnanzi) per testimoniare, con un gesto simbolicamente forte, la loro tenace volontà di vedere L’Aquila, ferita dal sisma del 2009, tornare agli antichi splendori. Anche questo è un segno di amore per la nostra bella Italia, anche questo è un segno che l’insegnamento dei “veci” ha dato risultati concreti e magnifici. E allora il sorriso e lo sguardo benevolo di questi reduci mi è apparso chiaro e naturale.
Cesare Lavizzari