L'Adunata che vorrei…

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    DI CESARE LAVIZZARI

    Bepi è uno che l’Altopiano lo conosce bene: conosce la sua gente, le piante e i fiori, le sue ferite e soprattutto le storie che gelosamente custodisce. L’ha girato in lungo e in largo. È stato nelle piazze, nelle osterie, ha parlato con gli anziani e poi è salito per i luoghi della grande battaglia dove i segni dell’immenso sacrificio non sono stati cancellati dal tempo.

    Questi luoghi li ha visitati con guide d’eccezione, come Gianni Pieropan, e da loro ha imparato a conoscere ogni sasso. E poi è salito da solo per ascoltare in silenzio la voce della Montagna Sacra agli Alpini e all’Italia e la Montagna gli ha svelato il suo segreto. Quando Bepi ha saputo che la prossima Adunata nazionale si sarebbe tenuta ad Asiago ho visto sul suo volto un velo di preoccupazione ma anche il lampo di una speranza.

    Lì ci sono i nostri morti mi ha detto Gli alpini di allora sono ancora qui. Non hanno mai lasciato l’Ortigara. E a loro si sono aggiunti quelli del Pasubio e del Piave e dopo sono arrivati anche quelli di Albania, di Grecia e di Russia. Tutti gli Alpini, quando vanno avanti, vengono qui. Sanno che questo è il luogo sacro agli alpini, ci vengono e si fermano: il loro spirito pervade tutto l’Altopiano. E noi non possiamo, non dobbiamo disturbare o turbare la loro serenità. Certo l’Adunata è anche una festa, una gigantesca festa di popolo e non può perdere questa sua splendida vocazione .

    Sono turbato, ma gli occhi di Bepi, ora sereni e sognanti, mi portano a capire che le due cose possono coesistere. E allora comincio a comprendere il sogno. In fondo è ovvio. Si deve far festa, l’Adunata è anche questo, ma deve essere una festa che tenga conto che ad Asiago i nostri morti non saranno semplicemente un ricordo ma una presenza. E la festa dovrà piacere anche a loro, dovrà portare loro serenità, non fastidio. E allora mi auguro che trabiccoli e trombette da stadio siano lasciate a casa; mi auguro che la caciara senza senso e sguaiata resti a valle, e sogno che si torni a far festa così come facevano i nostri nonni e i nostri padri. Semplicemente cantando.

    Il canto è l’espressione più tipica dell’alpino e accomuna tutte le generazioni che hanno indossato il cappello. Cantavano in Eritrea e in Libia, sul Piave e in Albania. Cantavano in caserma o al campo. E hanno continuato a cantare a casa, nella sede del Gruppo e ogni volta che si trovavano assieme. Forse oggi cantano un po’ meno. Sono distratti da questa società caotica e rumorosa. Ma certo! Ora il sogno mi è chiaro. Dobbiamo tornare a cantare tutti assieme.

    Questa di Asiago dovrà essere l’Adunata del ricordo e dell’affermazione dell’identità: L’alpin l’è sempre quel! . E’ il momento di riscoprire le nostre radici e di riappropriarci con orgoglio delle nostre più care tradizioni. E vedo l’Altopiano pieno di tende, straripante di alpini: sono seduti attorno al tavolo e cantano. I dialetti sono diversi, ma le cante sono le stesse e identica è la passione, la malinconia e la gioia che ne scaturiscono.

    Chiudo gli occhi e vedo il Sacrario, sormontato da un gigantesco tricolore teso dal vento. Al di sotto una marea di cappelli alpini: ci sono i vivi e i morti, i veci e i bocia, gli uni accanto agli altri senza alcuna tensione generazionale e tutti, ma proprio tutti, cantano assieme. Sulle orme dei padri per non dimenticare.