Il Tricolore della Scuola alpina sul Fitz Roy

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    Alpini di ieri e di oggi sulle Ande patagoniche per rinnovare una gloriosa epopea.

    Se Robert Fitz Roy, ufficiale dell’Ammiragliato britannico, idrografo e meteorologo, non fosse stato promosso capitano e posto al comando del brigantino Beagle , equipaggiato per un viaggio di ricerche scientifiche nei Mari del Sud che sarebbe durato cinque anni, probabilmente il suo nome si troverebbe oggi relegato nel dignitoso oblio di un annuario sepolto negli archivi della Royal Navy. E non svetterebbe ai 3.405 metri di quella torre granitica sfrecciante sull’orizzonte delle Ande patagoniche che nel 1831 aveva scorto soltanto da lontano.

    A battezzarla sarà l’argentino Perito Moreno, esploratore e consulente governativo incaricato della delimitazione confinaria con il Cile, che dedicherà un più modesto Mont Darwin al naturalista della spedizione, il ventiduenne Charles Darwin, il quale, fra un attacco e l’altro del mal di mare, aveva dato corpo alla teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale, portando lo scompiglio nel mondo scientifico occidentale, senza peraltro separarsi da una certa puzza sotto il naso tutta britannica nei confronti degli aborigeni. Patagoni (grandi piedi) li aveva denominati Pigafetta, lo scrivano vicentino di Magellano tre secoli prima, a causa delle orme che le loro estremità inferiori, avvolte in pelli di guanaco, sottospecie di lama, lasciavano sul terreno fangoso e sulla neve: pastori nomadi, cacciatori e raccoglitori, si cibavano di carni crude e di radici dolci.

    Alle loro tradizioni bellicose era legata anche l’universale leggenda del diluvio, durante il quale il Noè locale era riuscito a metterne in salvo un buon numero. Molti però avevano perso la vita e al ritiro delle acque erano riapparsi pietrificati sulle spettacolari guglie del Paine e del Fitz Roy. I rocciatori che oggi le scalano ignorano di piantar chiodi e conficcare piccozze sul petto e sul dorso di antichi guerrieri. Una realtà meno colorita, ma non meno affascinante, ci riporta invece agli abissi marini di due milioni di anni fa, uno più, uno meno quando, a velocità infinitesimale, il magma provocato dallo scontro fra la zolla continentale e quella oceanica si era solidificato in profondità prima di emergere, innalzarsi ed esporsi al lavorio dell’erosione, che ci ha regalato i picchi del Cerro Torre, le guglie del Paine, le torri del Fitz Roy.

    Il Fitz Roy è il signore di tutta questa vasta regione montana , lasciò scritto Alberto De Agostini, missionario salesiano ed esploratore, che lo fece conoscere a tutto il mondo alpinistico con saggi e fotografie un Cervino meno elevato, ma non meno terribile per la verticalità delle sue pareti . Ne ascese i primi contrafforti negli anni Trenta, accompagnato dalle guide valdostane Evaristo Croux (alpino decorato al V.M. nella prima guerra mondiale: nella seconda sergente di ferro nel Reparto Autonomo Monte Bianco), Leon Bron, suo compagno di naia (saranno con lui anche nella prima al Cerro Torino ), Mario Derriard (nel 1928 uno degli otto alpini sciatori nella spedizione polare del capitano Sora), col quale conquisterà il Cerro Electrico (dalle raffiche crepitanti come scariche elettriche), Giuseppe Pellissier e Luigi Carrel, il piccolo grande Carrelino di Valtournenche, alpino dell’ Aosta .

    Nel 1937 ci prova la spedizione di Aldo Bonacossa (nel ’15/18 ufficiale istruttore ai corsi di guerra per alpini sciatori, Titta Gilberti (subalterno al btg. Aosta e futuro pioniere di Courmayeur turistica), Leo Dubosc ed Ettore Castiglioni, accademici: sulla cresta nord est del Fitz Roy raggiungono la sella oggi nota come La Brecha de los italianos e in seguito conquistano il Cerro Nato. Sarà la coppia francese Magnone Terray a conquistare il Fitz Roy nel 1952, grazie all’ultimo minuscolo chiodo, modello asso di cuori , servito due giorni prima ad aprire una scatola di sardine e rintracciato in fondo al sacco quando i due erano già orientati alla rinuncia. Di tutte le mie ascensioni scrive Terray è quella in cui sono arrivato più vicino al limite delle mie forze e del mio coraggio . Documenta la conquista ammucchiando un po’ di sassi fra i quali infila un moschettone marchiato Cassin: È stato il più formidabile di tutti gli scalatori vittoriosi dirà e più di ogni altro avrebbe meritato di partecipare alla nostra vittoria .

    In Patagonia il clima è severo, pericolosamente variabile tutto l’anno, con venti violentissimi provenienti dal Pacifico, spiragli di sereno e calma atmosferica solo durante la bella stagione (il nostro trimestre invernale). Fra le ardue vette della terra il Fitz Roy, assediato dai ghiacci, irto di torri verticali, guglie, picchi gelati, non è delle più alte, ma una delle più temibili. Durante le marce di avvicinamento ci si può imbattere nelle tipiche formazioni dei penitentes , fitte guglie di ghiaccio alte fino a tre metri, simili a frati salmodianti, prodotte dall’ablazione solare e dalle forti escursioni termiche. Uno spettacolo affascinante, ma un martirio per chi deve attraversarle. Prevista dal progetto Oltre le nuvole, verso nuovi orizzonti , la spedizione alpinistica militare italiana Fitz Roy 2005 si è potuta programmare grazie alla disponibilità di un materiale umano di alta levatura, costituito da alcuni fra i migliori istruttori militari di alpinismo, fortemente motivati e usi a praticare pareti anche durante il tempo libero.

    Capo spedizione il maggiore Remo Armano, comandante della Sezione sci alpinistica del Centro Addestramento Alpino di Aosta: alle loro spalle un’invidiabile messe di esperienze maturate nelle precedenti spedizioni extraeuropee, dall’Himalaya all’Africa, dalle Montagne Rocciose alle Ande, dall’Alaska, all’Antartide. Obiettivo principale la salita al Fitz Roy lungo la via franco argentina, impegnativa e spettacolare, una sfida anche per gli alpinisti più qualificati. Le faranno corona altre cime remunerative, scelte secondo le condizioni ambientali del momento. Dopo la trasvolata atlantica, i motori terrestri si sono spenti nel villaggio di El Chalten (anche nome indigeno del Fitz Roy, montagna fumante , per i vortici nuvolosi che imperversano sulle cime), la capitale del trekking patagonico, a tre ore di marcia dal previsto campo base di Rio Blanco.

    Sono in attesa alla stanga per l’ultimo trasferimento le… jeep col pelo, che ai meno giovani della spedizione fan rivivere, sia pure per lo spazio di un mattino, l’impallidito ricordo del binomio alpinomulo. Primo bivacco esplorativo su ghiacciaio e scelta dell’itinerario fino alla crepacciata terminale. Le previsioni meteorologiche favorevoli e la buona condizione della parete consigliano di rompere gli indugi: l’11 dicembre, dopo il pernottamento in una grotta di ghiaccio, prendono il via in cordata i marescialli Alessandro Busca, Paolo Bruzzi e Vittorio Pallabazzer, che alle 16 mettono piede sulla vetta. Quattro ore dopo è la volta dei parigrado Ettore Taufer, Giovanni Amort, Ewald Beikircher. Dal Passo del Vento il maggiore Armano ha garantito i collegamenti radio tra cordate e campo base. Nei giorni seguenti la montagna reagisce, sia pure senza eccessivo accanimento, rallentando con vento e nevicate l’attività in quota e la ricerca di ulteriori obiettivi.

    Una finestra con squarci di azzurro si apre dopo un’altra notte trascorsa in caverna di ghiaccio al Passo Superiore e il 22 dicembre la coppia Armano Pallabazzer può metter piede sull’Aguya Guillaumet, raggiunta poco dopo per altra via dalla cordata Taufer Amort Bruzzi. Brusca e Beikircher devono invece rinunciare all’Aguya Poincenot: la via Patagonicos Desesperados non era certamente di buon auspicio. Altra notte in ghiacciaia e la vigilia di Natale, come i pastori a Betlemme, tutti si ritrovano a El Chalten. È un momento di nostalgia per l’Italia lontana, dove già si pensa alle feste di fine anno: per la spedizione è festa quando la cordata Busca Amort il 30 dicembre v
    ince l’Aguya della S. Ma i guerrieri di pietra, disturbati nella loro quiete secolare, si scatenano ad oltranza con venti e nevicate fino a bassa quota.
    Il tempo é scaduto e il 14 gennaio si riparte. Sull’aereo diretto in Italia si pensa già al prossimo appuntamento sull’oltre ottomila tibetano Cho Oyu.