Il senso dello Stato

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    Che si fa, dunque, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia? Si smantella la memoria della nostra storia, di ciò che eravamo, di ciò che siamo. Via, dunque, l’ormai anacronistico 2 Giugno festa della Repubblica, via il 1° Maggio festa del Lavoro – tanto, ormai manca sempre di più – e via anche il 25 Aprile. E magari anche altre ricorrenze: cosa saranno poi mai, questa Liberazione e questa Giornata delle Forze Armate!

    Chi vuol festeggiare è padrone di farlo la domenica prima o la domenica dopo, a piacere. Resistono – ma per poco – il capodanno, imposto dal calendario, e le festività religiose come Natale e l’Epifania, mentre sono un optional quelle dei santi patroni della città, come Sant’Ambrogio, a Milano, che più che religiosa è una festa culturale perché è il debutto della stagione musicale alla Scala, un evento che coinvolge non soltanto la città. Che il nostro fosse diventato il Paese dei “ponti” è vero, con una vocazione all’estensione temporale della festività abbinata ai primi o agli ultimi giorni della settimana.

    Una tendenza antica e brillantemente perseguita nei giorni nostri. Nessuno mette in dubbio che in tempo di crisi è preferibile lavorare di più piuttosto che di meno, ma perchè pigliarsela con le tre ricorrenze sociali e laiche che segnano la scansione della storia del nostro Paese e riguardano tutti i cittadini? Sarebbe tutto regolare se non vivessimo un periodo di perdita di valori e di identità, di smarrimento morale e di costumi, fenomeni più volte denunciati dal nostro presidente della Repubblica oltre che dalla stessa Chiesa.

    È ben vero che, sull’onda di una indignazione popolare diffusa, il comma 24 della manovra bis che sopprimeva le tre festività è stato revocato, ma il tentativo c’è stato. E ci sono stati anche gli appelli giunti da più parti e da organizzazioni economiche e culturali: perché, si è detto a ragione o a torto, eliminare festività che, anziché agevolare il risparmio provocano mancati introiti al commercio valutati 6 miliardi? Perché abolire il ricordo di giorni significativi della nostra Unità e la festa di un lavoro invocato come non mai, soprattutto dai giovani?

    Certo, l’Italia non è quella per la quale hanno combattuto e sono morti i nostri nonni; la Repubblica non è proprio quella prevista dalla Costituente, da una classe politica che nella Costituzione ha trasmesso il senso dello Stato; il lavoro è sempre più incerto, in un momento storico che pur era previsto, basta guardare agli allarmi lanciati vent’anni fa dal Consiglio Europeo in un rapporto di previsione che si riferiva al 2010. Ma tutto questo sarebbe una ragione in più, invece, per rilanciare queste ricorrenze e con queste la nostra identità. Mentre sarebbe un errore dare un risposta in chiave partitica: perché la nostra storia appartiene a tutti i cittadini, di qualsiasi estrazione e pensiero siano. Si chiama Democrazia.

    Del resto, la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, l’imbandieramento generale delle nostre città e paesi, l’entusiasmo, ma soprattutto lo spirito che ha animato la gente sono stati la stupefacente dimostrazione che pur in un momento di grande preoccupazione per l’economia, i problemi di tante e tante famiglie (in breve: per il futuro) gli italiani si riconoscono in quel Tricolore che hanno sventolato, legato alle terrazze, esposto alle finestre. Lo abbiamo visto a Torino, all’Adunata.

    Forse – anche – perché i torinesi avevano bisogno di un punto di riferimento preciso e fidato al quale guardare, e lo hanno trovato. Perché è indubbio che quel cappello sacro agli alpini sia anche nel cuore della gente: significa l’Italia che tutti vorrebbero, onesta, fedele alle istituzioni, disposta al servizio e alla solidarietà, che ispira fiducia. L’Italia che non rinnega il passato, ma guarda avanti. **