Continua la serie di appuntamenti legata al centenario. È in edicola la monografia di Meridiani Montagne, dedicata alle cime della Grande Guerra.
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Ci sono una data e un luogo ai quali ho sempre pensato di far risalire il mito degli alpini. È la notte senza luna tra il 15 e il 16 giugno 1915, sul Monte Nero, nell’attuale Slovenia. Con il favore del buio, un gruppo di alpini dei battaglioni Susa ed Exilles riesce a raggiungere la vetta e ad assalire di sorpresa la postazione nemica. Lampi, boati scuotono la notte. Il Monte Nero, sotto il comando del capitano Arbarello, è preso.
Questo, come dicevo, è il mito dell’ardimento alpino così come me lo sono sempre immaginato, quello della faccia dura, delle penne nere che non si tirano indietro davanti al pericolo e sanno mettere in gioco la vita per arrivare all’obiettivo. Ma c’è un altro mito degli alpini, al quale mi sento più legato, e che è poi l’altra faccia della stessa medaglia. È quello dell’alpino buono, pronto ad accorrere, ad aiutare, a tirarsi su le maniche e a faticare per gli altri.
L’alpino amico della montagna, e dunque della natura. Questa seconda immagine, apparentemente opposta a quella degli arditi dei battaglioni Susa ed Exilles, venne consolidata già all’indomani delle Grande Guerra attraverso le centinaia di monumenti fatti erigere in ogni angolo d’Italia. In quei monumenti l’alpino è ritratto nel suo lato umano e benevolente. «Non petto in avanti a sfidare la morte, non corsa slanciata con baionetta in canna» spiega lo storico Marco Cuaz descrivendo l’iconografia dominante dopo il conflitto. L’alpino è spesso appoggiato a un masso, «il fucile puntato verso il basso, lo sguardo fisso all’orizzonte… accanto ad aquile, muli, rocce e stelle alpine che testimoniano il legame con la natura, simbolo di autenticità e di valori».
Come mai fin dall’inizio si è voluto riconoscere questa immagine? Forse perché è la montagna stessa a esprimere questi valori di solidarietà, e l’alpino – figlio diretto della montagna – ne è l’incarnazione più autentica. Di fatto, con l’impiego degli alpini in montagna e dopo i quarantun mesi della Guerra Bianca – dallo Stelvio al Carso, già in vista del mare – le Alpi non furono più come prima. Saranno per sempre modificate nell’aspetto – con lo scavo di trincee, grotte, gallerie, fortificazioni, intere cime fatte saltare… e soprattutto ridefinite nell’immaginario: non più solo luogo di svago per intrepidi e sfaccendati signori amanti dell’alpinismo, ma nuovo sacrario della nazione. Le Alpi diventeranno i confini sacri d’Italia, dove centinaia di migliaia di uomini sono morti.
A un secolo da quegli eventi così cruciali per la storia delle Alpi, “Meridiani Montagne” dedica all’argomento un intero numero monografico con una speciale cartina allegata, ponendo la lente in particolare su sei gruppi montuosi attraversati dal fronte (Adamello, Prealpi vicentine, Marmolada, Lagazuoi, Alpi Carniche, Carso). È un racconto diverso della Grande Guerra quello che offre il nostro punto di vista, un racconto che mette al centro la montagna. La montagna così come oggi la si ritrova, con gli infiniti ricordi materiali che ancora la disseminano, le ferite ancora aperte, i nuovi reperti emersi dai ghiacciai, le trincee restaurate, le pareti incombenti come lo erano allora ma riviste con lo sguardo di oggi. È un viaggio per riviere quella memoria così significativa, proprio là dove più è presente.
Quello della Grande Guerra è un tema trattato da molti durante questo anniversario. È un tema pieno di significati che vanno oltre i fatti storici. Ed è un tema in cui si annida anche un pericolo: la deriva celebrativa. Se ci pensiamo – a parte l’ambito scientifico – la pagina della Grande Guerra di fatto non ha mai ricevuto una vera elaborazione nazionale, un ripensamento libero su ciò che è veramente stata quella tragedia immane. Subito dopo gli eventi bellici, il fascismo, con le associazioni combattentisti- che, si concentra a costruire il mito degli eroi caduti per la Patria, trasformando il Quindicidiciotto da evento feroce e insensato a momento carico di sacralità per preparare lo spirito del combattente in vista di nuove guerre.
Finito il Ventennio, l’attenzione pubblica si sposta sulle vicende più vicine e ancora grondanti di sangue: la dittatura, la Resistenza. Ormai sfumata in un passato remoto, la Grande Guerra in età repubblicana viene lasciata sullo sfondo, quasi dimenticata nel dibattito pubblico in favore degli eventi più recenti, pur con il dolore che non riesce a spegnersi e con l’arrivo di nuovi libri e film illuminanti (in primis quelli di Lussu, di Rigoni Stern, di Monicelli). Non usiamo la parola “celebrazione” per questo anniversario. Una guerra non si celebra, come dice il presidente dell’ANA Sebastiano Favero in un’intervista chiarificatrice che ospitiamo a novembre, nel numero speciale di “Meridiani Montagne”. Ci basterà ricordare per capire. E una gita in montagna nei luoghi qui descritti con la cartina tematica di “Meridiani Montagne” servirà allo scopo.
Marco Albino Ferrari