Dentro una rivoluzione epocale

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    È un dato di fatto che siamo nel bel mezzo di una rivoluzione epocale. Parlo della rivoluzione digitale, ovviamente. Paragonabile a quella avvenuta con la scoperta della scrittura, poi a quella legata all’avvento del libro, infine a quella del 1450 con la scoperta della stampa. Tappe dell’evoluzione del comunicare che hanno segnato profondamente la cultura del loro tempo, creando entusiasmo ma anche grandi paure. Pensando a quanto scriveva Platone nei suoi Dialoghi – siamo quattro secoli prima di Cristo – non è difficile sentire l’eco di quanto si dice anche oggi parlando dei media: “ti fanno il lavaggio del cervello”, “non si usa più la memoria”, “qualcuno pensa per te”… Da allora sono passati 2.400 anni.

    Se si dicono oggi come allora le stesse cose, vuol dire che la novità produce sempre le medesime inquietudini. L’importante è prenderne atto e imparare a gestirle. Basta un colpo d’occhio per capire le caratteristiche della rivoluzione in atto. Chi come me è cresciuto nella cultura del libro, sa che quella era una cultura analitica, in cui bisognava entrare con la ragione, con i tempi lunghi della riflessione. E poi era una cultura che guardava al passato e al presente, perché convinta che la memoria fosse maestra di vita. La nuova cultura digitale è al contrario rapidissima, quindi sintetica, appiattita sull’oggi. Trenta secondi prima di un Tg ti danno un resoconto che ti informa di quanto accaduto nel mondo in un batter d’occhio.

    Le notizie si superano nel giro di poche ore e se non fosse per qualche caso drammatico, nessuno di noi ricorderebbe i fatti del giorno prima. Una cultura radicata nel presente e fortemente interessata a colpire la parte più emotiva delle persone. Per farsi ascoltare bisogna coinvolgere l’emotività. Tutto il resto è noia, canterebbe Califano. Oppure zapping, aggiungiamo noi. Ormai i sociologi hanno iniziato a catalogare la gente per categorie mediatiche. Ci sono gli analfabeti digitali, cioè quelli refrattari a qualsiasi uso della moderna strumentazione digitale, quelli, per capirci, che non vogliono neppure imparare a mandare un sms col telefono. Ci sono poi gli “immigrati” digitali, ossia quelli che tentano di entrare nei nuovi strumenti, come stranieri che cercano di imparare una lingua e una cultura diverse dalla propria. La gamma delle loro capacità comunicative, varia dai livelli d’asilo alla scuola superiore. Ci sono infine i nativi digitali.

    Gli esperti li fanno partire più o meno dagli anni ’90. Si caratterizzano per una grandissima predisposizione a comprendere le tecniche di funzionamento del digitale, ne fanno un uso quasi assoluto nelle loro relazioni (qualcuno parla di protesi comunicative) ed hanno una innata predisposizione alla contemporaneità, ossia la capacità di fare più cose insieme, come ascoltare musica, fare i compiti, dare un’occhiata al video, un passaggio su Facebook… Esentiamoci dal fare i moralisti. I neurologi ci dicono che in loro si sono sviluppate alcune zone cerebrali diverse da chi è cresciuto nella cultura del libro. Tutto questo è bene o è male? Né bene né male. Ogni cosa nuova ha i suoi vantaggi e i suoi rischi. Ed è su questo che dobbiamo riflettere, tanto più che da poco siamo entrati nell’epoca del web 2.0. Non spaventatevi delle sigle. Web vuol dire ragnatela (così come www. vuol dire world wide web, ossia ragnatela che prende tutto il mondo).

    Perché 2.0? Semplice, perché siamo passati da un’epoca in cui eravamo soprattutto dei consumatori di ciò che ci offriva il digitale, a consumatori e fornitori. Entrando in rete è come se noi entrassimo in un grande supermercato a comprare i prodotti che sono in vendita, ma anche a metterci dentro i nostri. Penso a Facebook, per esempio. O a twitter, o semplicemente a Youtube… E qui comincia il bello, con i suoi pro, ma anche con i tanti pericoli, perché sugli scaffali ci può essere del buon filetto, ma anche prodotti tossici o andati a male. E questo è un rischio anche per noi alpini, per i nostri Gruppi o Sezioni. Ma di questo parleremo in una prossima riflessione.

    Bruno Fasani