Attilio, esempio vivente dell’antieroe

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    Attilio Entrade, alpino del battaglione Edolo, iscritto al gruppo di Terzano, sezione Vallecamonica è l’esempio vivente dell’antieroe. Di statura robusta, tipicamente montanara, cioè senza sprechi in altezza, faccia abbronzata e pelle liscia da sessantenne, sempre sorridente, con due occhietti penetranti che non lasciano spazio ai convenevoli o alle sottigliezze diplomatiche, fra qualche mese spegne novanta candeline.

    Porta un vecchio cappello con la noncuranza dei veri alpini che non lo piegano sulle ventitrè, non lo tirano secondo i canoni della moda fantasiosa dei vari reparti e lascia talmente ossidato il distintivo della campagna di Russia che si riesce appena a scorgerlo. Eppure quel vecchietto dall’aria dimessa e dalla disarmante semplicità della nostra gente di montagna, se avesse avuto grado, cultura e ambizione diversi, probabilmente avrebbe pubblicato più di un bestseller.

    La guerra se l’è fatta proprio tutta. Dal Fronte Occidentale, di cui parla scrollando la testa e senza fare commenti, se non per dire che sono state settimane di sofferenza e tribolazioni, all’Albania dalla quale è tornato con impresse nella memoria le cime e le valli che fanno parte della mitologia di una guerra dura, difficile, con una croce al valore militare ed entrambi i piedi congelati. Poi la Russia: preparazione, equipaggiamento e destinazione Caucaso.

    Ma le guerre si sa come cominciano, non come finiscono e così l’Edolo non si arrampica sulle cime asiatiche ma si trova schierato lungo le ondulate sponde del Don. Attilio, apparentemente senza emozioni, ma sicuramente senza enfasi guerriera, racconta più con l’espressione degli occhi che con le parole quando doveva scendere la sponda del fiume per le sortite notturne di pattugliamento con i Russi lì, a poche centinaia di metri, poco disposti ad accoglierlo con pane e sale, come si conviene nella loro tradizione.

    Quando, dopo quasi due mesi che 2500 carri armati russi scorrazzavano nel settore sud di Stalingrado e 16.000 bocche da fuoco facevano intendere che si era alla resa dei conti, i nostri comandi diedero finalmente l’ordine di ritirarsi, lui, capoarma, fu scelto a restare sulla sua postazione per contrastare l’avanzata del nemico e consentire al suo battaglione lo sganciamento. Il tenente che gli aveva dato l’ordine di mettersi al fucile mitragliatore lo salutò abbracciandolo. Sparò per tutto il tempo che gli era stato comandato di resistere, ma di quei momenti ricorda solo la piacevole sensazione del calore dei bossoli che gli cadevano sulle ginocchia.

    Dopo ore di fuoco e nonostante il cambio continuo della canna, quando le munizioni stavano per finire, l’arma arrivò al punto di fusione. Nonostante le condizioni meteorologiche proibitive, il caos della ritirata, riagganciò il suo reparto in tempo per vivere l’Odissea della Tridentina, subire una ferita al collo ad opera di un partigiano, trovarsi semisepolto da un colpo di artiglieria che polverizzò la sua postazione, compresi i due compagni che gli erano accanto, per essere pronto all’appuntamento di Nikolajewka.

    Coerente con il suo stile non parla di come gli sia stata data una medaglia di Bronzo, che non esibisce, ma ricorda con una venatura di tristezza due suoi paesani incontrati durante la ritirata. Invitati ad aggregarsi al suo reparto, gli risposero che non potevano lasciare i loro amici: e con quelli restarono, per sempre. Poi prigionia e liberazione da parte dei Russi nei Paesi Baltici non fanno storia per Attilio. Alla domanda, come si sono comportati i liberatori , risponde: I Mongoli e quelli della Siberia segue un lungo silenzio i Russi sono come noi , e il volto s’illumina di un sorriso dolce, gli occhi si vivacizzano e sembra voler dire che, in fondo, non sono i soldati a fare i danni più gravi, ma quelli che credono di avere come compito del destino di poterli usare a loro piacimento. (v.b.)

    Pubblicato sul numero di settembre 2008 de L’Alpino.