APPROFONDIMENTI L’odissea del Corpo d’Armata Alpino in terra di Russia 1942 ’43. Nikolajewka ultima speranza

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Nell’autunno del 1942, su ordine del Comando Supremo dell’Esercito tedesco, l’8ª Armata italiana (ARMIR), era schierata lungo il corso del fiume Don, da Babka, limite nord del settore, a Vescenskaja a sud, dove si trovava la 3ª Armata Romena. A nord, l’Armata Italiana, era collegata con la 2ª Armata ungherese.

 

A novembre il suo fronte si snodava a cordone sulla riva destra del fiume Don per ben 270 chilometri con uno schieramento che, partendo dall’ala sinistra, era il seguente: Corpo d’Armata Alpino (Divisioni Tridentina, Julia, Cuneense), II Corpo d’Armata (Divisioni Cosseria rinforzata dal 318º Reggimento tedesco, Ravenna e Rgpt. CC.NN. 23 Marzo), XXXV CSIR (298ª Divisione tedesca, Pasubio e Rgpt. CC.NN. 3 Gennaio), XXIX Corpo d’Armata tedesco (con le Divisioni Torino, Celere e Sforzesca) schierato all’estrema destra dell’ARMIR a contatto con l’Armata Romena.

In particolare il Corpo d’Armata Alpino difendeva un fronte di circa settanta chilometri. Il compito assegnato all’Armata italiana prevedeva ‘la resistenza ad oltranza sul Don’ per difendere, unitamente all’Armata Romena, il fianco sinistro della 6a Armata tedesca che operava a Stalingrado.

Tutte le unità italiane, in particolare quelle del Corpo d’Armata Alpino, avevano provveduto alla loro sistemazione sul terreno, nella convinzione che i russi non avrebbero intrapreso operazioni offensive sul fronte del medio Don e di Stalingrado prima della primavera del 1943.

Purtroppo le previsioni dello Stato Maggiore tedesco e italiano non si avverarono. L’Alto Comando Supremo sovietico (STAVKA), appoggiato dall’alleato inverno, preparò nel massimo segreto, un grandioso piano strategico, denominato ‘Urano’, che mirava, in un primo momento, a liberare Stalingrado e, subito dopo, ad eliminare le forze nemiche schierate a difesa del medio Don. Il mattino del 19 novembre una violentissima controffensiva rompeva il fronte della 3ª Armata Romena, ritenuta la più vulnerabile schierata alla destra dell’Armata Italiana, bloccando le vie dei rifornimenti destinati all’Armata di von Paulus che assediava Stalingrado.

E dopo quello strepitoso successo, preceduta da intense azioni tendenti a logorare le capacità di resistenza dei reparti italiani, il 16 dicembre, dalla testa di ponte di Verhnj Mamon, iniziava l’Operazione ‘Piccolo Saturno’, condotta da reparti di tre armate, la 1a, la 3ª e la 6ª . Una micidiale tempesta di fuoco si abbatté sulle posizioni dei fanti del II Corpo d’Armata.

I russi, appoggiati da potenti mezzi di fuoco, fra cui 980 carri armati, 2650 bocche da fuoco fra artiglierie, mortai e lanciarazzi multipli e 530 aerei, attaccarono le unità del II Corpo d’Armata italiano, le Divisioni Cosseria e Ravenna, tagliando in due il fronte dell’ARMIR e penetrando in profondità sino a Kantemirovka, centro nevralgico del sistema logistico dell’Armata italiana. L’offensiva consentiva ai russi di cogliere un altro importante risultato: l’interruzione della ferrovia a doppio binario che consentiva ai tedeschi di inviare i rifornimenti alle forze del fronte di Stalingrado.

Di fronte a centinaia di carri armati T 34, a nulla valse la disperata resistenza dei fanti della Ravenna e Cosseria, i quali dopo tre giorni di furiosi combattimenti, furono annientati dai carri armati sovietici. Per effetto della rottura del fronte, le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca, dopo una strenua resistenza, furono costrette a ritirarsi dalle posizioni del Don lasciando sul terreno migliaia di mezzi e artiglierie pesanti.

Accerchiate e bersagliate dal nemico e sottoposte a dover sopportare temperature polari, furono in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini fra caduti, feriti e prigionieri. Mentre le divisioni di fanteria si stavano ritirando il Corpo d’Armata Alpino continuava a difendere le posizioni sulla riva destra del Don.

All’alba del 14 gennaio 1943, l’Armata Rossa, scatenava un’altra potente offensiva, denominata ‘Operazione Ostrogozsk Rossosch’, tendente, con una gigantesca manovra a tenaglia, ad eliminare le rimanenti forze avversarie schierate ancora in difesa ad oltranza sul Don.

Valanghe di soldati e di carri armati russi attraversarono il fiume Don e infransero il fronte tenuto dalla 2ª Armata ungherese a nord e quello tenuto dalle unità tedesche a sud, racchiudendo il Corpo d’Armata Alpino e le residue forze alleate, in una vasta e profonda sacca. Iniziava così la drammatica ritirata, a piedi, con le sole armi, pochi viveri e munizioni, su un terreno ormai completamente in mano ai russi.

Non esistevano slitte in dotazione, le nostre erano quelle che avevano costruite gli alpini artigianalmente o che erano state requisite ai contadini russi. Automezzi e trattori, a causa del freddo polare con temperature notturne di 30º 35º sotto lo zero, erano inutilizzabili, a causa della rottura dei radiatori. Per uscire dalla sacca mortale, la sera del 17 gennaio, protetti da un velo di forze, il Corpo d’Armata Alpino iniziava la ritirata per ricongiungersi alle forze amiche che organizzavano più a ovest una nuova linea di difesa.

Furono due settimane di marce durissime con poche slitte cariche di feriti e congelati, senza cibo, fra isbe in fiamme, sotto il flagello del freddo e della tormenta accentuate da disguidi e incomprensioni con gli alleati tedeschi e ungheresi e appesantite per la mancanza di collegamenti radio fra le unità in ritirata.

Le penne nere della ‘Tridentina’, della ‘Cuneense’, della ‘Julia’, del Battaglione sciatori ‘Monte Cervino’, i fanti della Divisione ‘Vicenza’, i carabinieri e tutti i soldati dei servizi raggiunsero e spesso oltrepassarono i limiti estremi delle capacità di sopportazione umana. Essi sostennero una serie di epici combattimenti che sono entrati a far parte della storia dell’esercito italiano e d’Italia.

Il 19 e 20 gennaio a Novo Postojalowka e a Kopanki tre reggimenti della Julia e della Cuneense, per aprirsi un varco nello sbarramento russo, combatterono per oltre 36 ore una battaglia sanguinosa e disperata contro preponderanti forze russe appoggiate da unità corazzate. In quei due giorni di accaniti combattimenti moltissimi alpini e artiglieri finirono schiacciati letteralmente sotto i cingoli dei carri armati. I russi, alimentati continuamente da nuove forze ben armate ed equipaggiate, attaccarono ripetutamente e con grande impeto gli alpini della Julia e della Cuneense che, al prezzo di enormi sacrifici, con sovraumano valore, si difesero con accanimento cercando in tutti i modi di arrestare l’avanzata travolgente dei carri armati e delle fanterie.

Il 26 gennaio, dopo duecento chilometri di ritirata a piedi sulla neve, i resti della Divisione Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini, italiani, tedeschi e ungheresi, quasi tutti disarmati e in parte congelati, appoggiati da piccoli reparti delle altre divisioni e dagli ultimi quattro semoventi avanzi del XXIV Corpo corazzato tedesco, spronati dal generale Reverberi, comandante della Tridentina che al grido ‘Tridentina Avanti’, sfondarono l’ultimo sbarramento russo a Nikolajewka, mentre i resti delle Divisioni Cuneense, Julia e Vicenza, dopo sanguinosi drammatici combattimenti, vennero praticamente distrutti a Valuijki. Il 27 gennaio gli alpini della Tridentina proseguirono la marcia fra il gelo, la neve e gli attacchi dei carri armati e dagli improvvisi agguati dei partigiani, accusando gravi perdite di uomini, quadrupedi e materiali.

Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere. Come scrisse il mitico Giulio Bedeschi, di Arzignano, interprete dell’altissimo prezzo pagato dalle ‘penne nere’, nel suo libro ‘Il Natale degli Alpini’: ‘la battaglia di Nikolajewka fu una limpida vittoria dello spirito, sorta fra gli orrori della più spietata lotta fra gli uomini’.

Molti alpini caddero sull’altare del sacrificio per dare la possibilità ad altri di vivere e di trovare aperta la via verso la patria e la casa lontana. Il 31 gennaio la testa della colonna del Corpo d’Armata Alpino giungeva a Schebekino, fuori dalla sacca, ove i militari, sfiniti dai combattimenti, dal freddo e dalla fame, ricevevano i primi soccorsi.

Copioso il sangue versato dagli alpini per aprire ai superstiti la via della libertà: su 57.000 uomini del Corpo d’Armata Alpino ben 34.670 non tornarono; i feriti e congelati furono 9.400. La sola Divisione Cuneense perse 13.470 alpini. La Divisione Vicenza subì la perdita di 6840 fanti fra caduti e dispersi. Sono cifre che da sole testimoniano l’altissimo prezzo di sangue e di enormi sofferenze pagato dal Corpo d’Armata Alpino per uscire definitivamente dal mortale accerchiamento.

Nel marzo 1943 i superstiti dell’ARMIR vennero rimpatriati. Gravissime le perdite subite in uomini, armi, mezzi e materiali. La sua forza complessiva all’inizio dell’offensiva russa di dicembre era di circa 220.000 uomini. Dopo la ritirata, dal Don sino alla cittadina di Gomel, mancavano all’appello oltre 90.000 uomini. Altri trentamila furono i feriti e congelati.

Rivolgiamo con affetto la nostra mente e il nostro cuore, a quei valorosi protagonisti di quella terribile e gloriosa vicenda umana che hanno compiuto gesta sovrumane, sino al sacrificio della propria vita, per assolvere ad un Dovere, per essere fedeli alle Bandiere dei propri Reggimenti e alla Patria.

Le Istituzioni e la società, oltre al dovere di ricordare e onorare il valore e il sacrificio dei nostri Caduti e Dispersi in terra di Russia e dei valorosi reduci senza distinzione di grado e di Arma, devono far conoscere alle nuove generazioni quei tragici avvenimenti accaduti nel secolo appena passato, dei quali quasi sempre, e non per colpa loro, sono completamente all’oscuro; la loro conoscenza possa contribuire ad accrescere la coscienza civile e servire a ripudiare, in futuro, tutte le guerre e le violenze e ci aiuti a ritrovare quei valori che rendono gli uomini degni di tale nome.

 

Generale B. degli Alpini Tullio Vidulich