Battaglia per la Trafojer

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    Se vi è, tra le guerre sostenute dagli alpini in tutti i fronti dalle Alpi ai monti di Grecia e di Albania, una battaglia in cui il valore alpinistico- militare delle truppe da montagna, abbia brillato in modo superlativo e ineguagliabile, quella è la battaglia per la riconquista della Trafojer. Siamo nel gruppo dell’Ortles, la più alta montagna del semiarco orientale delle Alpi a circa un chilometro in linea d’aria dalla cima principale.

     

    È l’inizio di settembre del 1917. Gli imperiali solo una settimana prima si erano impossessati della cima, sorprendendo i 40 uomini del presidio italiano nella baracca in vetta, dopo lo scavo – durato tutta l’estate – di una lunga galleria nel ghiaccio che risaliva per 1.400 metri la parete ghiacciata (Eiswand) della montagna, per sbucare a pochi passi dal presidio italiano in vetta.

    Lassù si arrivava con una lunga scala di corda che gli avversari chiamavano la Himmeltreppe (scala nel cielo). Si viveva su una cresta affilata a oltre 3.500 metri di quota tra pareti ghiacciate che cadevano a picco dall’uno e dall’altro lato, crepacci, rocce friabili, sopportando quasi ogni giorno la furia del vento e delle tormente di neve che imperversano anche d’estate, portando temperature polari.

    Insomma erano qui condensate tutte le difficoltà più severe dell’alta montagna, ma la posizione andava tenuta perché da lassù, come da un aperto balcone si dominava con lo sguardo la valle di Trafoj e la strada dello Stelvio, ovvero la retrovia delle linee avversarie. Ecco perché il colonnello Von Lemprucht, comandante del settore, diede l’ordine di prendere la cima.

    Avuta la notizia della sua perdita, altrettanto fece il leggendario colonnello Carlo Mazzoli, che impose alle sue Guide Ardite della Centuria Valtellina l’immediata riconquista. E qui gli alpini compirono il miracolo di traversare per ben due volte sotto la bufera la temibile, aerea Cresta di Backmann e di scalare il roccione sottostante la vetta, con qualche chiodo per di più “guasto”, un martello da calzolaio e pochi metri di corda Manilla.

    Dagli altri lati del monte, intanto, ulteriori pattuglie accorrevano verso la vetta e, alla fine, non senza opporre una fiera resistenza, gli occupanti austro-ungarici, o si misero in salvo nella galleria, o furono presi prigionieri. Occorre dire che, il loro valore nella guerra in montagna, fu pari a quello dei nostri alpini, i quali però ebbero la palma della vittoria e l’orgoglio di aver compiuto una impresa alpinistica, oltre che militare, tale da farli entrare per sempre nella leggenda.

    Bepi Magrin