Perch l'Unit d'Italia partita da Torino?

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    Nello scorso numero abbiamo già dato una risposta alla domanda del titolo: il Risorgimento aveva bisogno di una dinastia che fosse insieme guida militare e garanzia di moderatismo, e i Savoia erano la dinastia più solida, più affidabile, più credibile. Se questo è vero, non è però tutto. C’è un’altra ragione che spiega la centralità di Torino, ed è che tra il 1849 e il 1861 la capitale piemontese diventa uno straordinario laboratorio politico e intellettuale.

    Dopo l’ondata rivoluzionaria del 1848, tutti gli stati italiani preunitari revocano gli Statuti che i principi assolutisti erano stati costretti a concedere sotto la pressione della piazza: l’unica eccezione è il regno di Sardegna, dove il giovane re Vittorio Emanuele II mantiene in vigore la carta costituzionale promulgata da suo padre Carlo Alberto. Questo fa di Torino un centro di libertà (per ciò che il termine significa a metà Ottocento), un luogo al quale guardano con speranza tutti gli spiriti progressisti della penisola e nel quale molti di loro si trasferiscono.

    Nasce in quegli anni la classe dirigente che farà l’Italia, e nasce dall’amalgama tra politici, militari e intellettuali di provenienza regionale diversa: ci sono piemontesi come Camillo Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, i fratelli Lamarmora, ma ci sono anche meridionali come Francesco De Sanctis, emiliani come Marco Minghetti e Manfredo Fanti (il fondatore dell’esercito unitario), dalmati come Niccolò Tommaseo, lombardi come Gabrio Casati (il ministro dell’Istruzione che introdurrà il principio della scuola elementare obbligatoria e gratuita ).

    Sono questi gli uomini che si ritrovano negli storici caffè del centro, che discutono sotto i portici di via Po e di piazza Castello, che animano le serate di studio dei salotti torinesi: sono loro che fanno dell’Italia (sino ad allora solo un sogno di letterati) un progetto politico credibile, forte di appoggi interni e internazionali. E sono loro che, realizzata l’unificazione con le fortunate campagne militari del biennio 1859 1860, riescono a fare gli Italiani dopo aver fatto l’Italia. Se vogliamo avere la misura di quale fossero le qualità di quel gruppo dirigente raccolto a Torino, valga per tutti questo aneddoto.

    Inverno 1860, Cavour organizza le elezioni del primo Parlamento Italiano e, come capo dello schieramento liberale moderato, si preoccupa di trovare candidati di primo livello: per questo scrive una lettera a Giuseppe Verdi e lo convoca a Torino per proporgli la candidatura in un collegio dell’Emilia. Verdi parte mal volentieri da Busseto, è un musicista, la politica attiva non è nelle sue corde, ma ad una chiamata del tessitore dell’unità non si può rispondere di no. Per questo egli si mette in viaggio e il giorno dell’appuntamento, alle 7 di mattina (quella era l’ora fissata!) si presenta puntualissimo davanti allo studio di Cavour: qui però si accorge che il lume è acceso e che dall’interno giungono delle voci.

    Cavour sta evidentemente parlando con qualcuno convocato alle 6 di mattina! Verdi si siede su una sedia e attende con pazienza sinchè si apre la porta: dallo studio dello statista esce Alessandro Manzoni, a cui Cavour ha proposto la candidatura per un collegio della Lombardia. Ecco, questa era la classe dirigente politica che partendo da Torino ha fatto l’Italia: Cavour dentro lo studio, Manzoni che esce, Verdi che entra. Il meglio di ciò che il Paese poteva proporre.

    Post scriptum: per amor di patria, fermiamoci alla memoria storica di quegli anni lontani e non facciamo paragoni col presente (chi è dentro, chi entra, chi esce ).

    Gianni Oliva

    Pubblicato sul numero di febbraio 2011 de L’Alpino.