Ma chi ha paura di una preghiera?

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    Abbiamo ancora nel cuore e negli occhi le celebrazioni dei tanti pellegrinaggi estivi. Quelli più importanti al Contrin, sull’Ortigara, all’Adamello e tanti altri sparsi sull’intero territorio nazionale, capaci di convogliare frotte di alpini, di simpatizzanti e turisti, sempre affascinati dal colore e dal calore di queste feste. Celebrazioni che hanno avuto per cattedrale gli spazi infiniti del cielo, senza pareti, senza dogane o barriere di altro genere.

    Tra poco i rigori climatici ci riporteranno dentro le chiese. Rigorosamente da copione, perché, se una cosa è evidente, questa è che gli alpini nelle loro feste ci mettono sempre dentro la celebrazione della Messa. Magari non saranno sempre e tutti credenti ma, a prescindere dalla fede, nessuno mette in discussione la profonda assonanza tra ideali evangelici e ideali alpini. Chi fa della propria vita un servizio, si identifica automaticamente in questa duplice appartenenza.

    Lo sanno molto bene tanti preti che hanno fatto dei gruppi ANA la loro longa manus nell’organizzazione di mille attività parrocchiali e iniziative sociali. Purtroppo, però, non sempre le cose vanno in questa direzione. A macchia di leopardo si incontrano, non raramente, religiosi che sembrano presi dall’orticaria alla sola idea di vedere un gagliardetto dentro chiesa o di sentire proclamare la Preghiera dell’Alpino al termine della celebrazione. Quelle parole «rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra patria, la nostra bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana» sembrano loro una profanazione inaccettabile nella logica di un cristianesimo che tutti riconosciamo pacifico, senza che questo ci autorizzi peraltro a trasformarlo in ideologia pacifista.

    La verità è che non occorrono grandi doti di intelligenza per comprendere due cose essenziali. La prima riguarda la veste con cui sono espressi questi concetti. È chiaro che, nella loro formulazione, risentono del tempo in cui sono stati scritti. Qualcosa di analogo a quanto si riscontra peraltro nei Salmi biblici che zelanti sacerdoti dovrebbero recitare nelle loro liturgie e che la Chiesa continua giustamente a proclamare come Parola di Dio. Quando si parla di un «Dio degli eserciti, che addestra le dita alla battaglia e le mani alla guerra», che «rende forti contro i nemici » è chiaro che bisogna coglierne la metafora senza fermarsi alla forma. E che dire ancora dei Salmi imprecatori che usano spesso espressioni di inaudita violenza o di brani biblici che si esprimono nello stesso tono?

    Per analogia, la Preghiera dell’Alpino va presa nel suo senso metaforico di impegno a tutelare e difendere un popolo e la sua identità culturale. Non ho mai incontrato, e sfido a smentirmi, un solo alpino favorevole alla guerra, amante delle armi, dei conflitti, voglioso di far divampare i fuochi dell’intolleranza. Al contrario ho visto e lo hanno visto tutti, compresi i preti pacifisti, alpini presenti nei luoghi toccati dalle calamità, fuori dai supermercati per le collette alimentari, pronti ad ogni emergenza e richiesta di aiuto… perché «armati di fede e di amore», come recita la preghiera stessa. Prendere alla lettera le parole, facendone un’interpretazione fondamentalista, non è solo un’offesa verso gli alpini e il loro stile di operare, ma un insulto alla verità delle intenzioni.

    Ed ecco allora la seconda cosa essenziale da tenere presente. Quando gli alpini recitano la loro preghiera, facendo riferimento alle armi, conoscono perfettamente quell’indicazione costituzionale che ripudia la guerra come strumento di soluzione dei conflitti. Ma hanno altrettanto presente la cultura della difesa, quella stessa che ha mosso il beato Giovanni Paolo II a chiedere l’ingerenza umanitaria in Bosnia. Difendere chi non è in grado di farlo da sé, correndo il rischio della vita, è atto di guerra o atto d’amore? Mandare le truppe in Libano per evitare gli scontri tra fazioni nemiche è atto di pace o militarismo? Essere presenti in Afghanistan a fianco di gente inerme e indifesa è atto di guerra o esercizio umanitario?

    In realtà viene il sospetto che, tante volte, dietro il pacifista, si nasconda – per dirla con la battuta di un amico – più che il cristiano, il pacifinta. Se il pretesto della pace diventa motivo di rottura, risulta evidente che l’ideologia, quella fiorita sugli orientamenti politici o culturali di vario colore, ha preso il sopravvento sullo spirito evangelico vero, benché di questo si serva come si farebbe col belletto.

    Bruno Fasani