Le Penne Mozze

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    Penne Mozze e cappello alpino sono argomenti ricorrenti nei discorsi degli alpini. Le Penne Mozze sono il nostro patrimonio e la nostra memoria, il cappello, come sanno tutti gli alpini, contraddistingue non solo il periodo militare ma tutta la vita. Ci piace dunque riportare una pagina tratta da Il segreto degli alpini , recentemente pubblicato da Mursia, che comprende una serie di racconti editi ed inediti fra i quali anche quello che per gentile concessione dell’editore riportiamo.

    di Giulio Bedeschi

    È impossibile spiegare appieno cosa significhi, per gli alpini, quel loro cappello. Cosa sia è presto detto: un copricapo di foggia piuttosto strana, al tempo stesso popolaresca e antica, con una cupola di panno infeltrito fornita di un'ala che le gira tutt'attorno, sul davanti abbassata verso gli occhi e all'indietro rialzata sulla nuca; e una penna, infine, proterva e scanzonata, puntata diritta verso il cielo dal lato sinistro del cocuzzolo. Ma cosa quel cappello significhi nessun alpino ve lo saprà mai dire per intero. Perché, a spiegarlo, non si tratta di usar parole, ma la vita; si tratta della particolare maniera in cui si sono riempiti i giorni, le ore, i minuti della vita. E chi riesce, alla fine, a tirare le somme e spiegare la vita?

    Sta di fatto che il personale legame fra l'alpino e il suo cappello era già cominciato sul finire dell'Ottocento, quando il copricapo era ancora a foggia di bombetta rigida e nera, ma da principio quel legame era certamente basato sull'amor proprio, sullo spirito di corpo, perché cappello e penna contrassegnavano, fra tutti i soldati, gli alpini fin dalla prima occhiata: cappello più Penna Nera uguale alpino. Ma, trascorsi i primi decenni in marce di addestramento e in sfaticate fin su ai ghiacciai delle Alpi, era destino che fosse l'Africa la terra su cui la figura dell'alpino doveva diventare incisiva e diventare un tutt'uno col suo cappello.

    Fu allora, infatti, dapprima nella campagna d'Eritrea e successivamente durante la campagna di Libia, che gli alpini si trovarono a dover fare i conti con la dura realtà della guerra. Marce interminabili nella grande calura, fatiche indicibili, imboscate, agguati, combattimenti improvvisi; e sempre, nel camminare sotto il torrido sole, soltanto quell'ala di panno che stava lì a riparare gli occhi dalla grande luce, ora dopo ora fino al tramonto. Sempre sete, sempre sudore. Dalla fronte dell'alpino il sudore trapassava il panno, lo inzuppava in un alone scuro che si diffondeva a macchia, e ciascuno riconosceva il suo: questo è il mio cappello.

    Si trattava anche di sangue, spesso. Quando in battaglia un alpino cadeva a terra con un gemito, c'era sempre l'amico che gli si inginocchiava accanto e fissava sgomento gli occhi del colpito a morte, quel sangue che usciva lento da qualche parte del corpo disteso. E sempre lì vicino c'era inoltre qualcosa d'insanguinato, nella caduta rotolato due metri più in là, ma sempre gelosa proprietà del morente: quel suo cappello. Allora il soccorritore lo raccoglieva, lo riguardava, restava indeciso con quel cappello fra le mani, senza arrischiarsi a rimetterlo al suo posto abituale, non si mette il cappello in testa a un uomo sdraiato e ormai morto; per il dolore e per l'impaccio qualcosa nella gola non andava più né su né giù, ed era quel gran magone, quella desolata voglia di piangere per l'amico che stava intiepidendosi e col quale non si poteva più parlare: non rispondeva più.

    Allora accadeva che infine per istinto il cappello veniva posato sul petto del Caduto, su quel torace ormai immobile, ma poi l'alpino restava ancora inginocchiato a guardare in silenzio. A quel punto, tenendo lo sguardo sul cappello posato su quel torace fermo, si accorgeva che nella rovinosa caduta anche la penna s'era spezzata. Nei combattimenti furono la prima, poi due, poi cinque, poi dieci e cento le penne spezzate a quel modo; finché gli alpini si avvidero che quello era il segno della morte, la morte di un alpino, e qualcuno di loro cominciò a indicare timidamente i fratelli caduti chiamandoli ‘le Penne Mozze’, come a dire in un modo meno brutale e quasi un poco poetico: una vita spezzata in due.

    E siccome nell'animo degli alpini, in apparenza ridanciani e spesso ruvidi e perfino a volte rozzi, sta sempre sprofondato un tantino di poesia, quel ‘Penne Mozze’ resse nel tempo, e col consolidarsi e moltiplicarsi della storia delle Penne Nere diventò tradizionale ed esclusivo sinonimo di alpino caduto. Gli alpini ancora non sapevano, ma la sempre ritornante follia degli uomini avrebbe poi provveduto, nel tempo, a ricacciarli in sempre nuove guerre, e a far sì che le Penne Mozze diventassero a un certo punto più numerose degli alpini viventi; e a un dato momento le Penne Mozze s'erano moltiplicate tanto da dover trovare un loro posto dove metterle, e così fu ideato e costruito un luogo apposito, chiamato il Paradiso di Cantore.