La piccozza: lo strumento che fa pi alpinista

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    Dal Similaun alla piolet traction, la storia d’un semplice bastone compagno di viandanti e pastori.

    DI UMBERTO PELAZZA

    Conduceva da secoli vita solitaria il ‘baculus alpinus’, lungo bastone dalla punta ferrata, compagno fedele di viandanti, cacciatori e pastori d'alpeggio: li equilibrava su terreno malsicuro, faceva raspa sui pendii, teneva a bada le serpi, sondava la neve. Confinato il latino nelle sacrestie e nei tomi degli azzeccagarbugli, continuò a girovagare per i monti sotto il nome di alpenstock. A tagliar gradini nel ghiaccio provvedeva da tempi immemorabili l'ascia del boscaiolo, il cui primo esemplare storico (lama di rame fissata a un manico di tasso) ci è stato conservato dall'uomo del Similaun, ibernato cinquemila anni fa in alta Val Senales. Un bel giorno i due si decisero per la fusione e i primi approcci sono iconograficamente documentati da uno dei vincitori del Monte Bianco, Jacques Balmat. Il patto è sancito a metà Ottocento, ma la convivenza parte col piede sbagliato: la lama di mamma ascia si ostina a rimanere verticale e la lunghezza di papà alpenstock è di ostacolo alla gradinatura: ne vien fuori uno strano ibrido a forma di anacronistica alabarda e ci vorranno alcuni anni perchè lei si decida a ruotare di 90 gradi e lui a farsi accorciare (e a togliersi dalla testa quel cornetto di camoscio continuamente preso di mira dai fogli umoristici). Dalla travagliata gestazione balza fuori la piccozza moderna: pesa sui due kg e la tiene a battesimo un compare d'eccezione, l'inglese Edward Whymper. Viaggio inaugurale: la prima sul Cervino. Assurta a immagine di conquista, seduce i trovatori della nuova Italia. A Courmayeur Giosuè Carducci la trasfigura in arma, celebrando l'epico duello con la montagna del grande Emilio Rey, caduto sul Dente del Gigante: ‘Spezzato il pugno che vibrò l'audace picca… ‘. Dalla bassa romagnola ne fa simbolo di ardimento Giovanni Pascoli: ‘Con la piccozza d'acciar ceruleo su sempre spezzandoti o gelo!’. Gli farà eco l'Imaginifico, Gabriele d'Annunzio, nella ‘Canzone a Umberto Cagni’, esploratore polare: ‘La volontà spietata che ti facea lo sguardo come il taglio della piccozza’. I compatrioti di Whymper, inventori dell'alpinismo, sono invece restii ad accettare i ramponi, che hanno da poco sostituito le antiche grappette a quattro punte. Farà eccezione l'ingegnere alpinista Oskar Eckenstein, che a Courmayeur convince il fabbro Henry Grivel a forgiare un prototipo a 10 punte e organizza, tra i seracchi del ghiacciaio della Brenva, la prima competizione di guide e portatori ‘cramponneurs’ (ramponisti). Siamo nel 1912. Grivel genio e trascuratezza non riesce però a far brevettare il modello perchè il disegno originale è stato rosicchiato dai topi. Nel 1929 un'accorta intuizione del figlio Laurent aggiunge frontalmente due denti che, trafiggendo orizzontalmente il pendio, consentono di arrampicare… in punta di piedi e senza torcere le caviglie: è nato il rampone a 12 punte. I francesi torcono il naso: le loro caviglie, dicono, sono ben articolate e la tecnica frontale fa un pò di anticamera. La piccozza, esonerata dalle faticose incombenze della gradinatura, ringrazia e tira il fiato: si apre la strada all'alpinismo senza guida. L'alpenstock non è ancora scomparso e sui monti della prima guerra mondiale viene persino messo in musica: ‘Il pistocco che noi portiamo è il pagadebiti di noi alpin’. Negli anni fra le due guerre la paletta della piccozza si accorcia e la becca mette la dentiera; il legno dei manici verrà gradualmente sostituito con leghe leggere nei primi anni Settanta. Col nuovo look compare sempre più spesso sugli schermi cinematografici. A Chamonix, durante la proiezione di un film, quando l'intrepido protagonista si frattura una gamba e col ginocchio sano spezza il manico di legno per steccare l'arto, dalla platea si alza la voce di una guida: ‘Il nome del fabbricante, per favore!’. Non è invece fiction la scena sanguinosa che si svolge il 20 agosto 1940 a Città del Messico, protagonista la piccozza a manico segato con la quale un sicario di Stalin, con un sol colpo vibrato al capo, stronca la vita dell'esule politico Leone Trotzki, la più ostinata spina nel fianco del despota sovietico. A lieto fine, invece, l'avventura vissuta in Kenya da tre soldati italiani, due dei quali alpini, internati in un campo inglese. Per combattere la sindrome da filo spinato, sottraggono dal magazzino due robusti martelli a penna lunga e, dopo averli impiegati per fabbricarsi tre paia di rudimentali ramponi, li muniscono di manici con puntale e con quelle piccozze… da terzo mondo, evadono, scalano il monte Kenya (5201 m.) e rientrano al campo due settimane dopo, complimentati dagli inglesi e ignari di aver anticipato di un ventennio l'invenzione del martello piccozza. La piccozza valdostana mantiene la linea tradizionale fino a metà anni sessanta. La impugnano il neo zelandese Edmund Hillary, primo sull'Everest nel 1953 e, l'anno successivo, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sul K2. Oggi i manici di legno non sono ancora tramontati. C’è chi non non li considera romanticherie del passato: trattati al carbonio, vengono messi in lavorazione a richiesta e competono per robustezza con i modelli più recenti, ma con un tocco di fascino in più. Per l'Adunata nazionale ANA di Aosta è stato proposto un elegante esemplare, con penna e nappina in rilievo su sfondo roccioso. I pezzi da museo sono altri: raccolti in due secoli di storia, si ammirano con vero diletto nell'esposizione permanente a due passi dalla Dora Baltea, unico angolo di Courmayeur con vista sui 4.810 metri della vetta del Monte Bianco. La piccozza è un'arzilla centenaria quando, negli anni Sessanta, spunta l'alba della piolet traction: originaria della Scozia, l'arrampicata su pareti e cascate ghiacciate si è diffusa con velocità imprevista. ‘Una stravaganza’, era stato all'inizio il commento più frequente, e ce ne volle a Chamonix per convincere Germain Charlet, artigiano geniale quanto scontroso, a fabbricare una piccozza non solo sul mezzo metro (una pazzia), ma anche con la becca curva (un vero sacrilegio!). Ma l'idea era indovinata, attecchì e mise in moto una reazione a catena: oltre la becca con lama ‘a banana’, che garantisce un ancoraggio di assoluta fiducia, viene inarcato anche il manico, a vantaggio di una presa più sicura ed efficace. Pochi anni dopo le varie componenti dell'attrezzo vengono rese modulari, sostituibili in caso di logorio e intercambiabili (già anni fa un modello pluriuso fungeva da piccozza, bastone, sonda, bastoncino da sci,…ombrello). L'attrezzo polivalente, carico di anni e di meriti, non ha finito i suoi giorni, tutt'altro, ma ha lasciato libero ingresso ai modelli specifici. Oggi gli obiettivi sono le difficoltà estreme, dove si sommano ghiaccio e roccia, fessure e placche: il cosiddetto ‘misto variabile’. Futurista o tradizionale che sia, la piccozza è pur sempre la bandiera dell'alpinista e la sua versatilità si rispecchia tuttora nella molteplicità delle prestazioni: appoggio per la progressione, intaglio di gradini, ancoraggio su ghiacciaio ripido, sondaggio, frenaggio in scivolata. Walter Bonatti, per diretta esperienza sulla sua pelle, aggiungerebbe le piattonate sugli arti intorpiditi dal gelo… E infine, per chi se ne sentirà degno, propone un ultimo servigio… per la quota più elevata, suggerito nel testamento dell'abbé Henry, il grande prete alpinista del primo Novecento: ‘Voglio essere sepolto con i miei due inseparabili compagni, la piccozza e il breviario: con la prima busserò alla porta del Paradiso, con il secondo mi farò riservare un angolino dietro la porta’. Certamente per tirar fuori, di nascosto da San Pietro, la terza, devota compagna del suo viaggio terreno: la ve
    cchia pipa.