L’onore violato

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    La vicenda che da due anni vede due fucilieri di marina trattenuti in India sotto l’accusa, mai ancora diventata vero e proprio capo d’imputazione, di aver sparato e ucciso due pescatori indiani è tra le cose più avvilenti che mi sia mai capitato di raccontare. Intanto, per l’accusa in sé. Non ho mai nascosto di conoscere e di considerare un amico Massimiliano Latorre. L’ho conosciuto in circostanze difficili, a Kabul, quando mi recavo ogni giorno, nella primavera del 2007, all’aeroporto militare per fare un servizio sugli elicotteri della Marina, a base “Pantera”.

    Latorre era il capo della scorta che mi veniva a prendere, al mattino, a Camp Invicta, e mi ci riportava la sera. Un percorso lungo, nel traffico caotico della capitale afghana, e lungo la Jalalabad Road, una delle strade dove gli attentati erano all’ordine del giorno.

    Il ricordo che ho di quei giorni mi riporta alla mente quello di un professionista serio, attento, determinato e gentile. Uno che non trascurava nessun dettaglio, cambiando ogni giorno il percorso. Ma che era capace di fermare l’auto, se vedeva una donna con il burqa, impedita nello sguardo, e trattenuta da figli in braccio e per mano, che tentava di attraversare la strada.

    In questo, Latorre e i suoi uomini erano esattamente quello che ho ritrovato sempre, in tante missioni all’estero: non Rambo dal grilletto facile, ma professionisti scrupolosi, pronti a battersi se serve, ma prima ancora a scherzare con un bambino, aiutare qualcuno in difficoltà. Non è un caso che io ricordi, in questi dieci anni di Afghanistan, una sola vittima civile e innocente, in un’automobile scambiata per un veicolo di attentatori, a Herat.

    Quando – e non voglio essere ingeneroso con le vittime dei droni americani – puoi ricordare con nome e cognome il tuo solo e unico sbaglio, vuoi dire che hai fatto mille volte, e a volte a spese delle sicurezza, di tutto per evitarli, gli sbagli. Capite perché da subito, in questa vicenda indiana, ho avuto un pregiudizio favorevole nei confronti dei due fucilieri di Marina: non li vedevo sparare su due bersagli innocenti. Ho creduto da subito alle loro stesse dichiarazioni: avevano sparato in mare, in direzione di un’imbarcazione su cui c’erano uomini armati.

    Purtroppo i governi italiani che si sono succeduti si sono comportati come se ci credessero di meno, alla loro innocenza. O come se tutto si potesse risolvere a tarallucci e vino: versando una somma in denaro alle famiglie dei pescatori, un gesto umanitario teso a calmare le acque, ma che inevitabilmente sembrava un’ammissione di colpevolezza. Non assumendo iniziative internazionali che spostassero il processo nella sua sede naturale, l’Italia, visto che l’incidente è avvenuto in acque internazionali.

    Accontentandosi di una privazione di libertà lieve, in albergo o in ambasciata, e di permessi per poter votare o trascorrere un periodo a casa. Il fatto è che nella generale disattenzione di un’informazione. che ci porta a sapere tutto dei delitti di Cogne, Perugia o Avetrana, è rimasta una voce solitaria l’inchiesta mia e di altri che dimostra come i due fucilieri di marina abbiano detto il vero, e che in un’indagine monca e manipolata gli inquirenti indiani abbiano attribuito loro un’incidente avvenuto 5 ore dopo.

    Lo dimostrano le prime dichiarazioni del proprietario-capitano del St. Joseph, le comunicazioni intercorse tra la Guardia Costiera indiana e la Lexie, le modalità dell’incidente in cui trovarono la morte i due pescatori, e persino la traiettoria dei proiettili per come appariva sul peschereccio, diventato un relitto inutilizzabile dopo che era stato restituito al proprietario e lasciato affondare.

    Non voglio annoiarvi con dettagli tecnici – ma sulla perizia balistica svolta in assenza dei periti di difesa ci sarebbe da scrivere un libro – ma vi pare possibile che dei colpi sparati a duecento metri di distanza da una petroliera vuota, e dunque alta cinquanta metri sul livello dell’acqua, si conficchino in un peschereccio alto massimo due metri con una traiettoria orizzontale?

    Certo, l’India non sa come imbastire un processo con prove inesistenti, non sa come fare marcia indietro e l’avvicinarsi delle elezioni di primavera rende la vicenda troppo delicata, anche per la diplomazia spavalda di una potenza giovane e nuova, qual è l’India. Ma il lato avvilente è, per me, quello italiano. Si è sacrificato, in nome di affari importanti (non sono tra quelli che reputano il business, quello degli armamenti o quello commerciale, irrilevante: sono soldi per le nostre aziende, lavoro per i giovani…) il destino di due servitori dello Stato, il cui comportamento fermo e dignitoso è l’unica cosa di cui andare fieri in questa storia. Non è questa la sede in cui fare polemiche, ma un dettaglio importante, che mi preparo a rivelare, non appena il processo avesse avvio, dimostra la falsità delle accuse indiane, ma anche la viltà del comportamento italiano.

    Non è la questione del rientro della Lexie nel porto di Kochi – in fondo, male non fare paura non avere – non è la pessima gestione diplomatica della vicenda, non è la riconsegna dei due all’India, un paese in cui esiste la pena di morte, non è la verbosità della politica. È qualcosa di peggio, che dimostra come qualcuno abbia considerato che si possa lasciare indietro qualcun altro. A costo di rinunciare a reclamare l’innocenza di Latorre e Girone. Li avrei difesi comunque, se sapessi della loro colpevolezza, uno sbaglio, un omicidio colposo. Ma qui in ballo c’è, con la loro libertà, quel che resta del nostro onore.

    Toni Capuozzo