L’arte del mangiar bene

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    Piacenza, la città che ospita la prossima Adunata nazionale, è posta all’estremo ovest della regione Emilia Romagna con la quale è collegata attraverso Parma. I suoi confini, con Cremona e Milano, la portano ad avere contatti con la Lombardia dalla quale è separata solo dal Po, e attraverso Alessandria con il Piemonte e la Liguria.

    Questo fa sì che i piacentini si sentano nello stesso tempo emiliani, ma anche fratelli di altre regioni, soprattutto con la Lombardia, in quanto la città gravita fortemente su Milano con migliaia di pendolari che tutti i giorni prendono il treno per il capoluogo lombardo. Qui siamo in Emilia, ma il vento lombardo è molto forte tanto che non sono pochi coloro che vorrebbero passare in Lombardia, soprattutto ora che si parla di rivedere i confini provinciali. Tutto questo si manifesta anche in tanti piccoli particolari, dal carattere dei piacentini alla cucina che è già emiliana, ma conserva anche i sapori asciutti delle regioni confinanti.

    Lo stesso per i vini, il cui principale, il Gutturnio, è un rosso delicato e morbido, ma con un retrogusto amarognolo. Era già conosciuto dai romani che hanno fondato la città, nel 218 a.C. Per quanto riguarda i piatti vi è un verso del principale poeta dialettale piacentino, Valente Faustini, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, che dice testualmente (ovviamente traduciamo): “L’anolino è un gran signore, ma il tortello è il suo fattore”. Conosciamo così due primi piatti importanti: gli anolini (l’anvein) sono una pasta ripiena (si ottiene con una forma circolare che incide i contorni dentellati) di un impasto formato da stracotto di carne e grana e poi cotti nel brodo. È un piatto da pranzo dei giorni di festa. Accanto a questo principe della tavola vi è il tortello, altra pasta ripiena molto diffusa in Emilia.

    Quello piacentino ha un ripieno di spinaci e ricotta (vi è anche una versione con la zucca), il tutto avvolto come una grossa caramella (le due code sono importanti perché sono la caratteristica piacentina). Dopo la cottura, il tortello viene condito con burro insaporito da qualche foglia di salvia. Restando nei primi, un altro piatto di cui i piacentini vanno fieri, sono “i pisarei e fasò”, gnocchetti conditi con un sugo di pomodoro arricchito da fagioli, in particolare i borlotti. Prima di entrare nel merito di alcuni piatti è bene precisare che la cucina piacentina, come molte di regioni italiane, è strettamente legata alla cultura del popolo, tanto che è stata studiata da specialisti del settore. La maggiore storica dei cibi locali è una studiosa di folclore e di tradizioni locali, la professoressa Carmen Artocchini.

    Questa signora delle ricette piacentine, nella premessa di un suo volume, “Piacenza a tavola”, scrive: “Non si deve dimenticare che la nostra cucina (quella piacentina) non l’hanno creata i cuochi (se mai l’hanno raffinata rendendola adatta a più gusti), ma le donne della campagna che potevano disporre solo di determinati ingredienti e dovevano destreggiarsi fra i prodotti del suolo e dell’allevamento, giostrare con i vari tipi di farina e di condimento, inventarsi modi nuovi per cuocere il pollame – oche e anatre – il pesce del Po e dei fiumi, e confezionare dolci con quello che avevano. È per questo che il ripieno dei tortelli di una volta era costituito da fagioli dell’occhio (o da castagne) lessati e passati al setaccio, amalgamati con la mostarda tritata con la mezza luna: mostarda che, data l’abbondanza di miele, certi tipi di frutta e una zucca speciale, si confezionava in abbondanza in campagna in quanto doveva servire da contorno, specie per il lesso.

    Per seguire sempre il discorso iniziale, gli gnocchi (prima dell’introduzione in Europa della patata) erano fatti di sola farina; la bortellina era fritta con lo strutto che dava maggior gusto. E così via; trasmesse, prima, oralmente da madre a figlia, e poi appuntate su fogli volanti e grossi quaderni, le ricette sono giunte fino a noi con tutte le varianti famigliari…”. Questa la storia. Ora Piacenza dispone di ristoranti e trattorie che hanno fatto della cucina tradizionale la loro ragione di vita: una visita a questi santuari della ristorazione può essere sempre piacevole.

    Qualche riferimento alle principali ricette. Iniziamo con un antipasto formato dai salumi piacentini: la regina è la coppa, ma paggi di tutto rispetto possono essere il salame e la pancetta. È da ricordare che l’allevamento del maiale nel piacentino è sempre stato molto curato in quanto costituiva una specie di cassaforte in grado di garantire il cibo per un anno intero: da qui la cura messa prima nell’allevamento dell’animale e poi nella conservazione dei prodotti derivati dalla sua macellazione. È vero che in Italia i salumi si possono trovare un po’ in tutte le regioni, ma Piacenza li ha messi al vertice del proprio interesse e, come detto, almeno inizialmente, non per un fatto commerciale, ma per motivi di famiglia.

    Ora tutti possono gustare questi prodotti che, nella loro storia, tanto devono all’amore dei nostri vecchi per la casa. Tra i primi piatti vi sono i già citati tortelli con la coda in diverse versioni (ripieno di magro composto da ricotta, bietole o spinaci e grana; una variante è quella di un ripieno a base di zucca, che – come si dice – quando è buona, e la piacentina in genere non tradisce, è veramente buona) conditi con burro e salvia; i pisarei e fasö (esiste solo la dizione in dialetto), gnocchetti fatti di farina e pangrattato conditi con sugo a base di borlotti e aggiunta di pancetta e grana; anolini, pasta ripiena (stracotto di manzo e grana) in brodo ottenuto con diverse carni; bomba di riso (pasticcio di riso con ripieno a base di carne di piccioni) e diversi altri piatti asciutti.

    Tra i secondi ricordiamo la “Picula ‘d caval” (stracotto a base di carne di cavallo tritata finemente e da servire possibilmente con la polenta), salame cotto, diversi piatti a base di anguilla e di pesci del Po e poi il pollame tra cui storicamente prevalgono l’anatra oppure la faraona, entrambe arrosto. Tra i dolci meritano di essere citati ‘l buslàn (tradizionale ciambella da gustare col vino bianco, magari un Monterosso), i turtlìt (tortelli dolci cotti al forno o fritti nello strutto con ripieno a base di castagne e mostarda), diversi tipi di torte tra cui quella di mandorle o la sbrisolona (friabile, per la verità proveniente da altre province, ma con varianti tipicamente piacentine).

    Il tutto con i cosiddetti vini dei Colli piacentini tra cui si impone il Gutturnio e, alla fine, per concludere un goccio di un liquore strettamente imparentato con la natura, il Bargnolino, derivato dalle bacche del prugnolo o il nocino, fatto con noci verdi. Anche se i raffinati dicono che non si usa più, buon appetito con i piatti piacentini.

    Fausto Fiorentini