L'alpinit, oltre le mode

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    Quando i reduci della Grande Guerra si radunarono in un’afosa giornata del luglio 1919 per fondare l’A.N.A., non potevano prevedere quale valanga avrebbe prodotto quel loro primo fiocco di neve . Come succede sempre nei momenti cruciali e di abbrutimento, quali sono i tempi della guerra con i suoi esiti devastanti, il ritrovarsi insieme era la risposta ad un bisogno profondamente umano. Era tornare ad affermare la positività dell’uomo, la sua capacità di fratellanza, dopo l’esperienza della brutalità, alle prese col lupo che periodicamente prende il sopravvento nell’animo delle creature.

    La prima adunata sull’Ortigara, nel 1920, di lì a qualche mese dalla fondazione, fu un grande atto di pietà, ma anche un passaggio di consegne. Su quei monti disseminati di morti, dove anche la natura faticava a riprendersi, il cuore e gli scarponi degli alpini superstiti andarono a portare l’omaggio commosso ai Caduti, tornando a valle intrisi di quelle virtù di cuore e di quel sentire che avevano animato i loro martiri.

    Gli anni a seguire, furono per gli alpini una seminagione di vita. Lo furono perché molti di loro misero in piedi famiglia, mettendo al mondo dei figli, che di lì a qualche decennio sarebbero diventati carne da macello, a causa delle nuove follie umane. Ma lo furono anche perché, proprio dalle famiglie, quelle umili, disseminate nelle valli e nei posti impervi dove si piega la schiena, furono impresse nelle coscienze delle nuove generazioni quelle virtù umane e sociali di cui gli alpini sono ancora oggi portatori. Mentre la società politica si piegava alle logiche di Caino, gli alpini dissero con la vita feriale ed umile delle loro case parole di sapienza e di conciliazione.

    Un giorno si dovrà rendere omaggio a queste famiglie attraversate da un travaglio sociale senza uguali, così come si celebrano i meriti della Resistenza, perché furono esse il vero ammortizzatore che garantì tenuta sociale nell’animo della gente, durante il devastante conflittualismo tra le due guerre. Mentre la politica dava nuovo nutrimento al lupo, gli alpini e le persone semplici, con i loro ideali di fraternità intessuti di spirito religioso, lavoravano a fare uomini e donne, lavoratori e cittadini di valore.

    Ci avrebbe pensato una nuova guerra a rimettere in pista gli scarponi, quelli che Gino Latilla avrebbe immortalato, di lì a qualche anno, con le note del Vecchio Scarpone. Ancora una volta, l’alpinità avrebbe servito, obbedito e pagato. Un conto durissimo, come se gli alpini fossero sempre debitori. Verso gli altri. Come se fossero attratti dal profumo del bene, che si trasforma in dovere e servizio.

    Non è retorica. Lo si sarebbe sperimentato negli anni a seguire, quelli della pace, ma anche delle fatiche e dei disastri ambientali. Quelli del Friuli piuttosto che del Molise, dell’Irpinia piuttosto che del Piemonte, dell’Umbria e della Valtellina, tra terremoti e alluvioni. Fino alla cronaca di questi mesi, dentro il cuore dell’Abruzzo, dove si è travasata competenza e organizzazione sociale, secondo un copione che non ha pari al mondo. Gli alpini hanno oggi un’altra battaglia insidiosa da combattere. Non cruenta, ma contro un nemico socialmente letale.

    È quella contro la cultura individualistica dei diritti senza più doveri, che genera i mostri dell’intolleranza, della violenza, del bullismo, del menefrego, lasciando intendere che c’è un’unica modalità per star bene, quella di pensare a se stessi. È l’anti alpinità per antonomasia. Un nemico sotterraneo e strisciante, da combattere con gli scarponi e il cuore intrisi dei sentimenti di sempre. Quelli dell’uomo e della sua vocazione a vivere in fraternità col suo prossimo. Una vocazione antica, oltre la retorica e le mode.

    Bruno Fasani

    Pubblicato sul numero di luglio agosto 2009 de L’Alpino.