Graziano: una forza Armata agile, flessibile e interforze

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    Intervista al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, dalle missioni internazionali, al ruolo dei reparti alpini.

    Generale, vent’anni fa si trovava in Mozambico col battaglione Susa, alpini di leva, in un contesto ambientale difficile e assolutamente inedito per Truppe da montagna; che ricordo le resta di quell’esperienza?

    Un ricordo splendido senza dubbio. Come ho detto già in altre occasioni, anche io ho contratto il mal d’Africa e, dipendesse da me, ripartirei subito per quel continente straordinario. D’altra parte, quando penso a questi ultimi venti anni, mi rendo conto di essere stato estremamente fortunato non tanto e non solo per il privilegio di avere raggiunto il vertice dell’Esercito, ma perché ho vissuto un momento particolarmente significativo della storia della Forza Armata in cui la componente terrestre, da organizzazione statica, consolidata e permanentemente schierata a difesa dei nostri confini, si è trasformata nell’attuale moderno strumento impegnato quotidianamente con oltre 10.000 donne e uomini nelle operazioni in Patria e al di fuori dei confini nazionali. E se la nostra generazione, che si è si trovata negli incarichi di comando più significativi nel momento in cui avvenivano questi cambiamenti epocali, ha saputo fare fronte a queste sfide ciò lo si deve solo all’accuratezza dell’addestramento e alla rigorosità della preparazione ricevuta. La mia carriera di ufficiale ne costituisce un chiaro esempio. Ho avuto la fortuna, già da giovane tenente, di prestare servizio nel Gruppo Tattico della “Taurinense”, posto permanentemente a disposizione della Forze Mobili Alleate, con cui, per quasi vent’anni, mi sono addestrato in ambienti artici operando in condizioni proibitive con temperature che potevano raggiungere i -40 gradi. Ebbene, il mio primo impegno, in un Teatro operativo, è stato esattamente all’opposto, in Mozambico a + 40 gradi, dove gli alpini hanno portato a termine la missione con straordinario successo a riprova del fatto che chi si addestra e si prepara ad operare nelle peggiori condizioni è poi in grado di vincere qualsiasi sfida. Tornando alla domanda, quella in Mozambico è stata una delle esperienze più significative della mia carriera di ufficiale e non soltanto perché ero molto più giovane di oggi, ma perché si è trattato di una missione esaltante sia sotto il profilo umano che professionale. Infatti, benché l’Esercito avesse già svolto operazioni all’estero, eravamo ancora agli albori delle operazioni internazionali, la conoscenza dell’inglese era appannaggio di pochissimi e il contingente, su base brigata alpina “Taurinense”, era costituito per la maggior parte da alpini di leva. In Africa portammo davvero la “crema” dei soldati di leva, meravigliosi ragazzi di vent’anni che con la loro volontaria adesione alla missione in Mozambico costituirono realmente lo snodo tra il vecchio sistema della coscrizione obbligatoria e quello che ora è il servizio militare professionale. Il battaglione “Susa”, di cui ero comandante, era parte di un raggruppamento, costituito anche da un battaglione logistico, da un gruppo squadroni dell’Aviazione dell’Esercito e da un Reparto di Sanità, che cominciò lo spiegamento nel marzo 1993 e operò in Mozambico fino all’ottobre di quell’anno per cedere, poi, il passo ai colleghi della “Julia”. Il nostro compito era, principalmente, quello di garantire la sicurezza del corridoio di Beira – una via di comunicazione di vitale importanza tra lo Zimbabwe ed il mare, servita da una rotabile, da una ferrovia e da un oleodotto – con la responsabilità di favorire e supportare, al contempo, il soccorso umanitario e sanitario alle popolazioni locali. Un compito impegnativo, anche in considerazione del fatto che operavamo in un contesto ambientale difficile e assolutamente inedito per truppe da montagna, ma grazie allo straordinario livello di efficienza operativa e logistica dimostrato – anche in quella circostanza e come di consueto – dagli alpini, il Contingente italiano assunse ben presto il ruolo di “forza di riferimento”, con funzioni di supporto logistico e sanitario a favore di tutte le forze ONU presenti nella regione. Sotto il profilo personale, non c’è alcun dubbio che quella esperienza mi ha lasciato in eredità un patrimonio di legami umani molto forti con gli uomini con i quali ho condiviso quegli intensi mesi in operazione. Sono vincoli fortissimi, indissolubili formatisi mentre facevamo qualcosa di importante in un paese splendido.

    Nel 2004 assunse il comando della “Taurinense” e l’anno dopo quello di una brigata multinazionale a Kabul, in Afghanistan. Due realtà diverse: una addestrativa e strutturata, l’altra operativa e complessa. Quale delle due ha lasciato una traccia più significativa nella sua esperienza di comandante?

    Difficile dire quale tra queste due esperienze, entrambe intensissime ed esaltanti, abbia lasciato in me il segno più profondo, anche perché non si è trattato di due realtà distinte, ma l’una è stata la naturale prosecuzione dell’altra visto che l’impiego all’estero è, da sempre, parte integrante del DNA della “Taurinense”. Dal 1960 al 2002, con un contingente di proprie truppe permanentemente a disposizione della Forza Mobile della NATO in Europa, la “Taurinense” ha infatti svolto il ruolo di vera e propria “palestra militare” per intere generazioni di ufficiali, sottufficiali e militari delle truppe alpine, dando, per prima, un “respiro” internazionale alla nostra Forza Armata. Non è, quindi, un caso che, anche in quella circostanza, la brigata “Taurinense” si sia trovata in prima linea. Sul piano personale, come comandante, confesso che quando partii per assumere il comando della “Kabul Multinational Brigade VIII” nutrivo qualche comprensibile apprensione per la prospettiva di comandare forze militari di altri Paesi, molte delle quali espressione di realtà culturali e tradizioni molto diverse dalle nostre. Con il senno di poi, posso affermare che, superate le reciproche cautele iniziali, la multinazionalità ha costituito un reale moltiplicatore di potenza. È stato solo necessario, con serena fermezza, far comprendere ai nostri partner chi eravamo e aggiungo, con orgoglio, che in quella circostanza la “Taurinense” venne additata dal personale degli eserciti alleati quale esempio di come dovrebbe agire e funzionare una brigata sul terreno di operazioni.

    Ci sono state circostanze in Afghanistan in cui la necessità di agire non ha lasciato spazio all’indecisione?

    Quella in Afghanistan è stata, sotto ogni profilo, una missione ad alta intensità e, in tutta franchezza, non c’è mai stato spazio per indecisione di sorta. Abbiamo sempre dovuto tenere pronte le armi, perché questo imponeva la difficile situazione locale del momento, dove un nemico subdolo era perennemente in agguato. Abbiamo dovuto piangere, anche, sulle vite di alcuni nostri commilitoni di altre nazioni, che il vile terrorismo ha stroncato. Abbiamo vissuto momenti di intensa tensione ed allerta. Ma non abbiamo dimenticato, mai, dove eravamo e perché c’eravamo. Gli alpini, anche in quella circostanza, hanno saputo interpretare al meglio la missione, dimostrando fermezza e umanità in quel mix che rende unico il soldato italiano e lo rende così apprezzato in tutto il mondo. E i risultati, anche in quella circostanza, ci diedero ragione: nei quasi 7 mesi trascorsi a Kabul svolgemmo oltre 11.000 pattuglie, diurne e notturne (di cui quasi la metà condotte congiuntamente con la polizia o l’esercito afgani), portammo a termine, con successo, oltre 50 operazioni di ricerca e distruzione di depositi occulti di armi, oltre a promuovere numerosissime attività di cooperazione civile-militare che hanno avuto un significativo impatto sul miglioramento del tenore di vita della popolazione locale.

    E veniamo al Libano. Lì, per un lungo periodo, ha operato al comando di 13.000 militari di nazionalità diverse, sotto l’egida dell’ONU, con il compito di mantenere la pace in un’area dagli equilibri assolutamente fragili. A suo parere, quali requisiti personali e professionali deve avere chi ricopre un simile incarico?

    Credo che il primo requisito di un comandante, indipendentemente del luogo e delle circostanze in cui è chiamato ad operare, debba essere il coraggio morale; e il coraggio morale è anche coraggio fisico. Un comandante non può restare immobile perché la propria vita e quella dei suoi uomini sono in pericolo: anzi, deve essere in grado di trarre proprio dalla paura – un sentimento naturale, che attanaglia anche il più preparato dei militari – preziose indicazioni per operare al meglio, riducendo i margini d’errore e i rischi. Sul piano più prettamente personale, per quanto riguarda il comandante della missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL), ritengo che egli debba possedere, oltre ad altissime capacità e conoscenze tecnico-professionali, anche buone doti politico-diplomatiche. Il comandante di UNIFIL rappresenta, infatti, anche la massima autorità politica dell’ONU in quel Paese: in tal senso, deve sempre dare dimostrazione di essere assolutamente fermo ed equidistante con le parti in causa. Ma deve, altresì, possedere una buona conoscenza della società, della cultura e delle tradizioni locali, fondamentali per poter interagire alla pari con i propri interlocutori e, credo, che proprio questa sia stata una delle “chiavi” del successo del mio mandato.

    Accademia, specializzazioni, comando di reparti, c’è un’esperienza o una persona che ricorda in modo particolare?

    Senza ombra di dubbio, i periodi trascorsi in missione all’estero al comando di unità operative resteranno per sempre impressi, in maniera vivida, nella mia memoria e nel mio animo. Il Mozambico, l’Afghanistan e, soprattutto, il Libano hanno rappresentato le esperienze più entusiasmanti della mia carriera. Perché? In primo luogo, perché il mio lavoro, in cui credo intensamente, mi gratifica profondamente. In secondo luogo, perché là dove regna un discreto disordine, tanto per usare un eufemismo, ci si sente utili, importanti. Terza ragione, i legami umani, di fratellanza in armi, di cameratismo che nascono tra soldati insieme per mesi in operazioni: si tratta di vincoli fortissimi, indissolubili. E poi, c’è anche un pizzico di avventura, che non guasta, che insaporisce l’esistenza. Da ultimo, le confesso che mi sono reso conto, in quelle realtà molto povere ed essenziali, di quanto noi occidentali, nei nostri Paesi abbiamo perso il senso delle cose semplici e la capacità di apprezzare la vita in tutte le sue sfaccettature; credo che sia essenziale riscoprire tale “filosofia di vita” soprattutto in un momento qual è l’attuale, in cui è assolutamente indispensabile recuperare il senso del rigore, non soltanto materiale ma anche morale.

    Dalla costituzione dell’Esercito Italiano sono passati 151 anni e tanta storia è stata scritta da chi ha indossato la divisa con le stellette. Ora gli scenari internazionali sono profondamente cambiati e la difesa del paese si realizza con strategie e strumenti innovativi. La politica estera richiede presenze sempre più frequenti e importanti di nostri soldati in vari teatri operativi, e anche le esigenze interne non sono trascurabili. Come si sta muovendo la Forza Armata?

    Il 151° anniversario della costituzione dell’Esercito coincide, non a caso, con quello della creazione dello Stato unitario. Da quel momento, infatti, reggimenti con un glorioso passato preunitario si unificarono in una nuova data di nascita e questo avvenne perché essi non fossero una mera sommatoria di diverse milizie, ma per divenire invece simbolo di Unità nazionale ed insostituibile risorsa al servizio del Paese. Da allora l’Esercito si è progressivamente trasformato in uno strumento proiettabile ed integrato a livello interforze, che oggi garantisce la componente predominante dei contingenti schierati fuori dai confini nazionali. Nel tempo, infatti, sebbene gli scenari strategici siano profondamente mutati, è stata sempre confermata l’imprescindibile esigenza di dover esprimere forze da combattimento – quindi, uomini e donne in armi sul terreno – sufficientemente robuste e rapidamente dispiegabili, capaci di interagire con le complesse realtà locali. In tale quadro, anche quando non impegnato in operazioni, l’Esercito svolge una funzione di primissima importanza nell’assicurare la protezione delle frontiere e la sicurezza nazionale. Tutto questo nel contesto di una crescente quanto indispensabile capacità di integrazione in ambito NATO ed Unione Europea volta a contribuire, in linea con il livello di ambizione e il ruolo sul piano internazionale che spettano al nostro Paese, al mantenimento della stabilità e della pace nel mondo. Da ultimo, l’Esercito è da sempre pronto ad operare, come è spesso avvenuto negli ultimi anni, per il bene del Paese e della società civile, fornendo concorso alle Forze dell’Ordine ed intervenendo a sostegno della popolazione e in occasione di calamità naturali.

    Tempi duri per tutti. Anche il bilancio della Difesa, pur contenuto rispetto a quello di altri paesi europei, risente delle ristrettezze imposte dalla crisi economica. L’Esercito, per la sua struttura più tradizionale, potrebbe risentire delle esigenze di ammodernamento, particolarmente onerose, della Marina e dell’Aeronautica?

    La crisi di natura finanziaria, senza precedenti, che stiamo attualmente attraversando, ha reso ineludibile una profonda revisione e trasformazione della Forze Armate. Bisognerà pertanto giungere, in tempi brevi, ad uno strumento militare più snello e di dimensioni più contenute rispetto all’attuale, non solo in termini di forze, ma anche di sistemi d’arma e strutture organizzative. In tale quadro, ciascuna Forza Armata è chiamata a fare la sua parte nell’interesse superiore del Paese. Per quanto ci riguarda, all’Esercito viene chiesto un ridimensionamento per giungere ad avere uno strumento terrestre più flessibile, a forte connotazione expeditionary, tecnologicamente avanzato, in grado di operare all’interno di contesti multinazionali, interforze, interagenzia e interministeriali. Inoltre, in pieno accordo con le linee di indirizzo del Ministro, l’Esercito promuoverà il processo di interforzizzazione, tramite l’accorpamento e l’ottimizzazione di capacità similari tra le diverse Forze Armate, ferma restando la necessità di tutelare le nostre peculiari capacità e specificità, partendo, innanzi tutto, dal nostro personale, risorsa essenziale della Forza Armata.

    La società civile, distratta da tanti problemi veri o presunti, guarda ancora con simpatia il militare. È una tradizione che affonda le radici nel servizio di leva. Basta ricordare certi memorabili giuramenti sulle piazze delle nostre città. C’è il pericolo di un progressivo disinteresse o addirittura di una disaffezione verso chi porta una divisa?

    Sono assolutamente convinto che non vi sia alcun rischio di disaffezione verso i militari. Gli italiani, come hanno anche dimostrato attraverso la loro costante vicinanza in occasione di tutti gli eventi luttuosi che, purtroppo, hanno colpito la Forza Armata negli ultimi anni, riconoscono nell’Esercito una delle istituzioni più amate e rispettate, una vera risorsa per il nostro Paese. Come ha ribadito anche di recente il Ministro della Difesa, vi è la consapevolezza da parte dei nostri concittadini che la Difesa rappresenta un investimento, e non un costo, per garantire la sicurezza di tutti gli Italiani, in Patria e al di fuori dei confini nazionali.

    Mai come in questi anni abbiamo avuto tante penne bianche ai vertici di comando. Può essere che la tradizione alpina sia ancora una scuola valida?

    Nel corso della sua lunga e prestigiosa esistenza, il nostro Corpo ha scritto pagine indimenticabili di eroismo, distinguendosi sempre per disciplina, senso del dovere e spirito di sacrifico e non vi è dubbio che le Unità alpine costituiscano una “palestra militare e di vita” unica nel panorama della Forza Armata. Dall’opera di soccorso alle popolazioni in occasione di calamità naturali, alle operazioni di controllo del territorio in ambito nazionale, fino agli interventi internazionali in aree di crisi, gli alpini di oggi, al pari di quelli del passato, hanno contribuito a creare l’iconografia del soldato della montagna, “bocia” o “vecio” che sia. Un soldato con la penna che, sotto l’apparenza di un aspetto burbero, forgiato dalle asperità dell’ambiente montano, è capace di atti di sereno coraggio, esemplare dedizione, amorevole generosità e silenziosa umiltà. Un soldato altamente addestrato, motivato e disciplinato, in grado di operare in qualsiasi territorio, in ogni condizione ed ambiente climatico. Non è dunque un caso se in momenti di particolare difficoltà, quale quello che stiamo attualmente attraversando, il nostro Corpo si trovi in prima linea a dimostrazione della validità, dell’attualità e della vitalità della tradizione alpina.

    L’ANA è da sempre vicina ai giovani in armi. Non potrebbe essere altrimenti. Gli alpini di nuova generazione avvertono l’ombra protettiva della grande famiglia montagnina?

    Penso che lo straordinario successo di pubblico e la corale partecipazione di giovani riscontrata in occasione della recente Adunata nazionale svoltasi a Bolzano, sia la più chiara dimostrazione dei forti vincoli di appartenenza e di affetto che legano gli alpini delle nuove generazioni alla nostra Associazione. Affetto che è frutto della capillare e preziosa opera che l’ANA svolge, quotidianamente, per tramandare i tipici valori alpini alle nuove generazioni e per favorire la piena integrazione degli alpini in armi con le comunità che tradizionalmente ospitano i nostri reparti. Un’opera di straordinaria importanza per la quale, anche attraverso quest’intervista, desidero rivolgere il mio più sincero plauso e il mio più affettuoso ringraziamento a tutti i membri dell’Associazione Nazionale Alpini.

    Vittorio Brunello