Ghiacciai, ultime nevi?

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    Il periodo attuale non è il più caldo di tutti i tempi, ma non c’è dubbio che i gas industriali prodotti negli ultimi decenni abbiano compromesso il delicato equilibrio termico del pianeta.

    di Umberto Pelazza

    Le oscillazioni dei ghiacciai, le impennate della temperatura, i fenomeni franosi sono oggi argomento di viva attualità: la criosfera, il mondo del freddo, non è più un fattore a sé stante del paesaggio terrestre, ma è inserita profondamente nell’ambiente naturale e antropico. Ambiente nel quale il personaggio del giorno un po’ misterioso, invisibile ma reale, sbrigativamente colpevolizzato delle incongruenze climatiche del nostro pianeta è l’effetto serra, da sempre termostato naturale in grado di diffondere nell’atmosfera una temperatura a misura d’uomo. Vapore acqueo, ozono, metano, clorofluorocarburi (cfc) e soprattutto anidride carbonica, intercettando le radiazioni solari riflesse dalla terra come o­nde termiche le hanno restituite in quantità adeguata agli organismi viventi.

    Fino al giorno in cui ci ha messo lo zampino l’homo faber delle ultime generazioni, con le sue deforestazioni a man salva, le combustioni industriali di petrolio e carbone e le bombolette spray. La filtrante coperta spaziale ha accusato il sovraccarico e l’ha respinto al mittente, incrementando la temperatura globale. Giornalmente ogni italiano scaraventa verso l’alto 20 kg di anidride carbonica, preceduto dagli americani con 55 e dai giapponesi con 25 ( solo 3 i frugali indiani). Documento di pura facciata, il protocollo di Kyoto, sottoscritto dalle potenze industriali ma non dagli U.S.A., ha lasciato il tempo che ha trovato; la pentola ha continuato a bollire. L’effetto serra è stato l’ultimo attore a presentarsi sulla scena della climatologia mondiale, che ha nei ghiacciai i più appariscenti evidenziatori.

    Si profilano all’osservatore lontano come gli emblemi dell’immobilità e dei freddi silenzi, ma sono gli agenti del clima più spettacolari, in grado di trasformare l’aspetto di intere catene montuose, che trovano in loro i fedeli depositari dell’archivio storico: le torbiere, che vengono alla luce durante le fasi di regresso conservano per millenni i pollini di antiche e rivelatrici presenze forestali. Sulle Alpi occupano una superficie di 3.000 kmq, di cui 600 in territorio italiano, percentualmente penalizzato dall’esposizione a sud e dalla ripidezza dei versanti. Il periodo attuale non è il più caldo di tutti i tempi. Anche le glaciazioni del quaternario, dovute a cause astronomiche (orbita del pianeta che in centomila anni passa da ellittica a subcircolare, asse terrestre che si produce in un lento prolungato inchino e oscilla come una trottola in fase di stanca) erano state intercalate da lunghi periodi interglaciali, simili a quello che la terra sta vivendo da diecimila anni.

    L’optimum climatico del quinto millennio aveva favorito lo sviluppo agricolo del Medio Oriente e della valle dell’Indo e provocato piogge estive nel Sahara. L’epoca romana fu dominata da un periodo caldo e arido: le legioni di Cesare superavano senza particolari difficoltà i valichi alpini, fossero essi il Monginevro o il Piccolo San Bernardo, che disponevano perfino di mansiones , i motel dell’antichità. Nel secondo Medioevo i ghiacciai alpini coprivano superfici inferiori a quelle odierne: le costruzioni toccavano i duemila metri e i pascoli si spingevano a tremila. Ai piedi del Cervino, dove oggi si pratica lo sci estivo, il colle del Teodulo era superabile, salvo i mesi più freddi, anche con cavalcature: fu testimone delle migrazioni dei Walser verso le testate vallive del Monte Rosa. Ma è sufficiente la variazione negativa di uno o due gradi della temperatura media annuale, con ripetute estati fresche che impediscano la fusione completa delle nevi invernali, per abbassare di centinaia di metri i limiti delle colture, di prati, pascoli e delle nevi perenni.

    Negli strati nevosi di un certo spessore, gelo e rigelo, temperatura, pendenza e acqua percolante che lubrifichi il fondo roccioso, provocano lo scorrimento di un nuovo ghiacciaio. La resistenza alla fusione dovuta alla massa e il freddo che produce spiegano come le fronti possano scendere sotto il limite delle nevi persistenti e raggiungere i livelli della vegetazione e delle abitazioni. È quanto accadde nella seconda metà del ‘500, quando s’instaurò su tutta l’Europa quel periodo freddo e nevoso denominato Piccola Età Glaciale, la più grande variazione climatica dell’epoca storica. Le Alpi erano ammantate di ghiacci che si affacciavano minacciosamente allo sbocco delle valli, raggiungendo la massima espansione nella prima metà dell’Ottocento. I valichi più alti divennero impraticabili, foreste secolari vennero distrutte, alpeggi e villaggi furono investiti e sepolti dalle fiumane avanzanti.

    I prodotti della terra non giungevano a maturazione, carestie e pestilenze spopolarono la montagna. Nel folklore delle valli alpine sopravvive il tema delle borgate scomparse sotto i ghiacci, trasformato nel rimpianto di un passato perduto, un’età dell’oro contadina di ricchi pascoli, folti boschi, campi generosi. L’inversione di tendenza prende avvio dopo il 1850, quando la temperatura media mondiale si è innalzata di un grado. Iniziata dalle Alpi Marittime, la fase di ritiro investe tutti gli apparati glaciali occidentali: i limiti delle nevi salgono di duecento metri e le lingue vallive si accorciano di conseguenza. Il regresso ininterrotto (per ora), s’inizia dopo il 1985: l’ultimo colpo di coda lo vibra il ghiacciaio della Brenva, che, ai piedi del Monte Bianco, si era avvicinato alla zona dell’attuale traforo, portandosi addosso il suo mantello di disfacimento morenico ricoperto di betulle, o­ntani e brenve (larici): uno scorcio altamente pittoresco destinato purtroppo a vita breve.

    Sta aumentando il numero dei ghiacciai neri a causa dei detriti, come la non lontana chilometrica lingua del Miage: un’autodifesa che riduce la fusione, permettendole di vivacchiare un po’ più a lungo (potrebbe essere, nel giro di un secolo, l’aspetto più comune dei ghiacciai alpini). Lo scioglimento del sottostante permafrost (terreno compattato dal gelo e privato della controspinta dei ghiacci) dà luogo ad una foresta ubriaca , dalle numerose crepe che costringono gli alberi a inchinarsi in impossibili posizioni da contorsionisti. Le fronti dei ghiacciai più vasti distano ormai un migliaio di metri dalle morene frontali delle precedenti invasioni. Il riscaldamento attuale è considerato da alcuni scienziati come una pausa della Piccola Età Glaciale, che potrebbe fra non molto riprendere il cammino interrotto.

    Altri, invece, memori della regolarità con la quale si erano avvicendate le grandi invasioni a livello planetario, ritengono che già a metà secolo si potrebbero cogliere i primi segnali di un’interglaciale avviata alla conclusione. In tal caso sarebbero sufficienti tre gradi in meno (e qualche secolo in più) per innescare una nuova glaciazione in grado di seppellire un giorno le più note città alpine (il ghiacciaio balteo del quaternario aveva sepolto la conca di Aosta sotto una spessore di ottocento metri). Se al contrario si accentuassero le conseguenze dell’attuale periodo caldo, il mare si riprenderebbe la materia prima fornita a suo tempo ai ghiacciai e Venezia ci andrebbe di mezzo. Previsioni tutte che nessuno si azzarda però a dare per scontate.

    E a breve scadenza?Sarà sempre più marcata la scomparsa dei ghiacciai minori, mentre i più estesi si restringeranno: il futuro paesaggio sarà sempre più simile a quello dei Pirenei e degli Appennini, con piccoli ghiacciai annidati nei circhi. La quantità di neve caduta sulle Alpi occidentali a 1.500 metri si è già ridotta del 20 , mettendo in pericolo l’esistenza delle piste sciistiche di bassa quota, dove anche la neve programmata è sottoposta ai capricci della temperatura. Da aggiungere, quasi all’ultima ora: il 6 novembre scorso, a
    causa dell’alta temperatura, è crollata una parte del Pilone Bonatti , lungo la direttissima del Bianco.

    Diceva Mark Twain: Se frequentasse i ghiacciai, l’uomo finirebbe col sentirsi un tantino insignificante . Ma se è sopravvissuto quando i mammut sono scomparsi, ce la farà anche stavolta. Soprattutto se, ai fini dell’adattamento e della continuità della specie, terrà a mente la lezione di quel fiorellino dal nome ad hoc, il ranuncolo glaciale: di color bianco alle basse quote, dove gli insetti impollinatori abbondano; di un roseo più vivace a mezza montagna, dove, ridotti di numero come sono, devono essere maggiormente sollecitati; rosso vivo a livello dei ghiacciai (record di altezza: 4.250 metri), dove la lotta per la riproduzione si svolge con richiami all’ultimo sangue.