Abbracciarsi ancora

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    Sul mio tavolo due fotografie: un’immagine in bianco e nero ritrae tre giovanotti forti e sorridenti. Chiaramente in posa davanti a un obiettivo professionale. La divisa perfetta, le fiamme bordate di giallo esclusive dell’Artiglieria da Montagna. L’altra, sistemata lì accanto, è a colori. Gli stessi tre giovanotti cambiati dal tempo. Uno, quello seduto, tiene nella mano la fotografia scattata sessant’anni prima. La mostra con fierezza, con lo sguardo di chi sbeffeggia il tempo come a dire: “Siamo ancora qui!”. Succede così che a distanza di anni ci si ritrovi. Forse per contrastare la malinconia, forse per ritrovare quegli occhi in cui ci eravamo specchiati per dodici, quindici, diciotto mesi o chissà quanti.

     

    La naja si sa è scuola di vita. La caserma il paradigma della società. E nella consuetudine dei giorni scanditi da un ritmo imposto e serrato, ci sono gli uomini. Quei ragazzi di vent’anni con un mestiere e con un amore lontani, messi in attesa. Accadde anche a loro, a Braga, Boniciolli e Caneva. Piacenza, Trento e Arzignano li videro partire, ultimi allievi a Civitavecchia per i sei mesi di corso. Poi il trasferimento a Foligno: “Ad attenderci alla stazione un mucchio di gente che non aveva mai visto gli alpini. Quanta festa ci fecero! Non si può dimenticare”.

    Nei sei mesi passati avevano condiviso la vita. Marce, sentinelle, punizioni, pastasciutte e brande. Erano gli anni più belli, quelli della giovinezza che non ha tormenti, a tratti incosciente che gli ufficiali, come fratelli maggiori, cercavano di disciplinare. Amicizie fraterne rinforzate dagli stessi disagi e da una vicinanza dapprima forzata, poi cercata.

    Da qui nasce il desiderio di ritrovarsi. Una meticolosa ricerca intrapresa da Caneva, la stessa di centinaia d’altri come lui. Aveva incontrato Boniciolli, ma Braga no. Giuseppe Braga, il più magro dei tre, gli occhi sorridenti in un volto di bimbo vestito da soldato. L’accento arioso proprio della parlata emiliana. Mancava lui. Al telefono, dopo quasi sessant’anni: “Sei tu Giuseppe?” l’emozione corre lungo il filo fino all’altro capo del telefono.

    Una voce interroga: “Sì, chi parla?”. L’abbraccio indugiò ancora qualche mese fino all’Adunata a Piacenza, occasione unica per un incontro che paziente ha saputo attendere. Racconta Adriano Caneva: “E quando ci siamo visti… abbiamo fatto le nostre lacrime! Siamo stati due giorni insieme ospiti a casa di Giuseppe. E la domenica abbiamo sfilato tutti e tre, come allora”. Uniti dai ricordi, da un sentimento saldo e naturale.

    Quello che si può leggere negli occhi impressi sulle pagine de L’Alpino collocate sul finire del giornale, nella rubrica “Incontri”. Un mosaico che dura da quasi cento anni. Migliaia di tasselli che hanno preso il loro posto, colorati dai protagonisti e da epoche diverse. Volti che si cercano ancora e cercano i loro comandanti perché il sentimento che li spinge è avulso dalle logiche gerarchiche. Il carico del vivere preme e mette a tacere quel sentimento, ma solo per poco. Ecco che ritorna e cresce fino a concretizzarsi in un incontro.

    È l’istintivo, semplice bisogno di ritrovarsi insieme. E stare meglio con un abbraccio che di due fa un corpo solo. Così per ognuno si ricompone e si rianima il quadro della vita di quel tempo, che era certamente aspra e dura, ma aveva pure le sue pause di serenità e di gioia.

    Questa alchimia di emozioni fa la differenza, rende migliori. E lo strano copricapo con la penna fa il resto. Scrisse Bedeschi: “quel cappello che a guardarlo dice giovinezza per tutto il tempo della vita”. Vero. Accade così, che uno sguardo ci faccia sobbalzare all’indietro. Ai tempi gentili della Lambretta e di Carosello. Del miracolo italiano vissuto a bordo d’una Giardinetta blu. Erano i tempi dei muli e della naja negli alpini.

    Mariolina Cattaneo