Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    Col cappello mi sentirei fuori posto, ma

    M’'inserisco nel dibattito sul cappello alpino che alcuni richiedono per gli ‘amici’ ANA. Da 10 anni godo dello status di ‘amico’ nella sezione di Verona, gruppo San Zeno. Mi sono associato all'ANA per dare un senso ai 43 anni di un trascorso militare che non consideravo soddisfatto dall'ANPDI (Associazione Nazionale Paracadutisti), dato che questa autorizza basco e insegne militari anche ai soci cosiddetti sportivi che non hanno mai prestato servizio militare. Sono un paracadutista militare, accetto collateralità con quelli sportivi ma non accetto che indossino i simboli che spettano solo a coloro che hanno militato nella specialità. Mi sento una specie di alpino mancato e ho sistemato l'emblema dell'ANA sul lunotto della mia vettura, ma non indosserei mai il cappello alpino. Mi sentirei fuori posto, come chi sale sull'autobus senza pagare il biglietto. Tuttavia, non si può ignorare che gli amici degli alpini dimostrano un attaccamento alla loro posizione che supera a volte anche quello di associati a pieno titolo. Inoltre, il loro professarsi tali attesta l'accettazione dei valori, tradizioni e proiezione all'impegno propri e specifici dell'ANA. Ritengo pertanto abbiano titolo ad aspirare a qualche segno distintivo che significhi quanto precede. Prevedere per loro un copricapo di tipo norvegese, con l'emblema dell'ANA, oltre ad attestare gradita collateralità li farebbe sentire anche meno estranei quando partecipano in appartata presenza alle riunioni della sezione o gruppo di appartenenza. Un provvedimento del genere potrebbe anche risolvere il dilemma dell'autorizzare o meno l'uso temporaneo del copricapo alpino a coloro che, pur non avendone titolo, sono parte integrante di cori e fanfare poiché ne consentono la sopravvivenza. E, si sa, cori e fanfare sono strumenti insostituibili per la visibilità dell'immagine alpina oltre che validissimo supporto per il recupero dei latitanti e per incoraggiare all'arruolamento i giovani che ancora sentono la spinta a dare un contenuto di servizio alla loro formazione civica. In conclusione, ritengo che ognuno debba ornarsi dei simboli distintivi che attestino il dove e il come del suo momento militare. Ma ritengo anche che non si possa ignorare l'ansia partecipativa di chi, sentendosi partecipe dei valori e tradizioni del Corpo, ne dà testimonianza aggregandosi all'ANA. E questo, non per il previsto e temuto futuro calo di associati con penna, ma perché è doveroso dare un segno di riconoscimento a chi, nella miseria culturale che affligge oggi il nostro Paese, si sente ancora stimolato alla condivisione dei valori che contano. Non per apparire, ma per essere.

    Lucio Innecco Verona ( generale di Corpo d’Armata già comandante di FTASE a Verona)

    ‘Chi trova un amico…’

    Da tempo l'A.N.A. guarda preoccupata al futuro dell'Associazione, messo a rischio dal nuovo concetto di esercito e, fondamentalmente, dalla sospensione della leva. È inevitabile che la questione, pur con l'occhio vigile alla doverosa salvaguardia dei valori originali che hanno fatto grande il Corpo e I'A.N.A., si concentri sul ruolo degli ‘Amici degli alpini’. ‘Amici degli alpini! Chi sono costoro?’, si potrebbe dire, parafrasando don Abbondio. La più semplice e corretta definizione sarebbe: ‘Sono persone che, pur non avendo svolto il servizio militare negli alpini desiderano far parte dell'A. N.A., che glie ne dà la possibilità associandoli con una tessera speciale’. La realtà è più complessa. Mi preme sottolineare un aspetto importante della definizione che gliene dà la possibilità perché ritengo sia alla base di tutte le tesi e antitesi che ne conseguono. Gli ‘Amici degli alpini’ sono persone affatto superficiali che, potendo scegliere, hanno optato, d'istinto, per l'A.N.A. per innumerevoli motivi, ma sintetizzando, perché si sono accorti di condividere appieno ciò che in A.N.A. viene definito ‘alpinità’, cioè ‘donare, adoperarsi per gli altri, rispettare codici morali oggi ritenuti superati, amare la patria, prediligere l'essere rispetto all'avere’. Tutto ciò per l'A.N.A. dovrebbe significare aver fatto scuola, aver seminato bene e nei suoli giusti, essere giunta al cuore e, quindi dovrebbe essere motivo di profonda soddisfazione per un consenso così vasto. Allora, dov'è il problema?Perché è nata l'orribile corrente dei cosiddetti ‘puri’, che tiene più all'orpello (il meraviglioso cappello alpino) che alla testa che ci sta sotto, facendone quindi una questione di pelle che, scusateci, con l'alpinità fa proprio a pugni? Pur nella nostra piccola realtà di provincia (poco più di 200 soci), sentiamo perfettamente l'urgenza di fare chiarezza (e giustizia) su questo argomento. L'80 dei nostri soci effettivi è latitante, tanto latitante da dover andare di casa in casa per il rinnovo del bollino. Il 70 dei nostri amici è sempre qui, attivo e disponibile; molti sono inseriti nella Protezione civile e non mancano mai nell'emergenza. Non mi sembra giusto emarginarli e neppure mi sembra logico darci la zappa sui piedi: a noi servono, a noi fanno comodo, per noi fanno immagine. Sì, perché nessuno ha mai affermato: ‘Nella tal circostanza sono intervenuti gli amici degli alpini’, piuttosto, sovente proprio per merito loro, si è detto ‘Meno male che sono arrivati gli alpini!’. E qui torniamo a quanto detto prima, cioè, l'A.N.A. dà loro la possibilità. Non ci si limiti però a riscuoterne le quote e a farli lavorare! I nostri amici vogliono ‘far parte’, anche senza cariche direttive, di questa nostra famiglia. Se invece ‘questo matrimonio non s'ha da fare’, allora si abbia almeno il coraggio, all'alpina, di togliere questa possibilità, uscendo dall'ambiguità.

    Leo Giannelli Calusco d’Adda (BG)