Il bene del fare

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    È una terra antichissima. Se montagne, pietre e campanili potessero parlare, racconterebbero di civiltà leggendarie, mestieri dimenticati, edifici adibiti a culti pagani risalenti all’età del bronzo poi distrutti e risorti come chiese dedicate alla cristianità. È la Valcamonica. Nel mezzo, quel piccolo paese chiamato Cividate Camuno, fu Civitas Camunnorum.

     

    Lo si passa via veloce, di solito. Lo si supera quasi ignorandolo, perché svelti si punta a nord, alle località sciistiche dell’Adamello e dell’Aprica. Eppure, sebbene sia una minuscola e valligiana realtà, riserva al viandante curioso inaspettate bellezze romaniche: il teatro, l’anfiteatro e le terme, o meglio quei resti che furono della città romana e che oggi giace sotto vie, strade e abitazioni della civitas moderna. Sono diverse le porzioni del teatro recuperate e così dell’anfiteatro, porzioni capaci di rendere l’idea di come poteva essere allora, al tempo dei Romani.

    Una civiltà così antica, quasi ignorata dal turismo, forse perché circondata da alture che portano lo sguardo più in alto, là oltre le cime. Eppure, se gli concederemo tempo, ne saremo ripagati. Il luogo dice di avere una storia, lo dicono i resti dei tempi antichi, lo dice la sua gente. E gli alpini del Gruppo locale che si costituì ottantuno anni fa lo confermano. È consuetudine, tuttavia, che in questi piccoli centri montani siano i gesti e le opere a sostituire le parole. Ed è a questo punto che ha inizio la nostra storia.

    Ci sono infiniti modi per fare della solidarietà, per essere d’aiuto agli altri; anche preservando il luogo che ci ha visto nascere e diventare uomini, anche prendendosi cura della chiesetta in cui la mamma ci conduceva a pregare, nel giorno di festa. Non restando indifferenti ai guai del tempo che passa, ma ponendovi un rimedio, seppur modesto. Ecco allora l’esempio degli alpini di Cividate Camuno che hanno offerto le proprie doti confezionando ripristini a regola d’arte, impiegando i propri alpini talentuosi nel recupero di antichi manufatti. Come la sistemazione delle “santelle” lungo la strada che percorre il colle del Barberi no. Sono le stazioni della “via crucis” a decoro d’un tratto di strada ripido, immerso nei fitti boschi di latifoglie che vestono le alture. Sulla sommità del colle la vista si apre sul parco archeologico di Cividate con il teatro e l’anfiteatro romano ed è quassù che sorge la piccola chiesa di Santa Maria del Ribelle, anch’essa rimessa in sesto dagli alpini con nuovi intonaci, riparazioni e piccoli altri rifacimenti. Ma non finisce qui. C’è un nuovo progetto che riguarda la chiesa di Santo Stefano.

    Necessita di un intervento di manutenzione al tetto poiché le infiltrazioni della pioggia con il passare del tempo pregiudicheranno struttura, intonaci e decorazioni interne. Eretta sopra ad una rupe, la si raggiunge percorrendo una manciata di scalini. È l’ennesima scommessa, l’ultima sfida degli alpini di Cividate. Uomini attaccati al territorio, alle tradizioni come le radici d’una pianta, nerborute e forti, lo sono alla terra. Ne avevano parlato alle riunioni del Gruppo, in aspirati che fanno del dialetto camuno una lingua stramba e quasi incomprensibile. Ne avevano parlato e la decisione era venuta da sola, come logico epilogo. Perché quella è la pieve del Santo Patrono e degli antichi avi. È là a vegliare il paese da migliaia di anni: è la prima cosa che lo sguardo cerca al ritorno da un viaggio. La prima che fa dire: casa! E così, nell’attesa del benestare di Comune e Soprintendenza, delle pratiche e dei permessi esito d’una burocrazia mai alleggerita, gli alpini hanno cominciato a marciare. Hanno raccolto i denari e si sono suddivisi i compiti. E ora sono pronti. I lavori partiranno al più presto perché forte è il desiderio di rivedere la pieve in ordine, finalmente risistemata.

    Si attenderà la primavera, certi che il finale di questa nuova avventura sia già scritto. Come un dipinto che si rivela piano, con l’aumentare delle pennellate sulla tela bianca, così ciò che ora è solo visione, giorno dopo giorno diventerà realtà. E per questa che nasce, ce ne sono mille altre compiute, appese a una parete da tempo e capaci di emozionare ancora. Nonostante tutto. Penso a Parona, Bussolengo e Borgo Venezia. Tre paesi della provincia di Verona accomunati da un’iniziativa preziosa, nata in modo fortuito. Come una scommessa. L’alpino Giancarlo Simeoni, infermiere per una vita, poi messo a riposo in pensione ebbe un’idea: chiamare a raccolta un gruppetto di alpini e non, purché infermieri, per creare una sorta di squadra al servizio della comunità. Detto, fatto. Da Parona poi, si trasferì di casa a Bussolengo e fece lo stesso. Buttò un altro seme e poiché non vi è terreno più fertile di quello alpino, raccolse ben presto molti frutti.

    Da quel giorno sono trascorsi trent’anni. A Parona lo zaino, ora, è sulle spalle del buon capogruppo Bruno Zanella che con tenacia persegue l’impegno. E quell’idea oggi è divenuta esempio contagioso tanto da esser realizzata in altri paesi accoccolati nella pianura veneta. Simeoni racconta. Scivolano le parole sulla cadenza dolce della lingua veneta, ma sono poche, quelle che bastano. Perché gli uomini del fare sanno che le ciacole non fan farina e non c’è motivo per sprecarne. E si raccomanda: “Non metta il mio nome. A me interessa che funzioni il servizio. Non servono mie fotografie!”. Forse ha ragione lui. Forse basterebbe dire che questo ambulatorio alpino, aperto sei giorni su sette, offre assistenza a oltre duemila persone l’anno, per lo più anziani.

    Ci va chi vuole misurare la pressione, chi deve fare una iniezione o una piccola medicazione. Tutto sempre sotto l’egida del medico di base. “Ma chiami il mio capogruppo – taglia corto con garbo il Simeoni – io non sono niente è lui che sa tutto…”. Riverenza di “grado”, retaggio della naja alpina. E allora telefono a Francesco Tebaldi, capogruppo degli alpini di Bussolengo. Da lui riesco persino ad ottenere una fotografia e qualche altra notizia. Mi parla dell’organizzazione annuale di una importante conferenza sulla salute, giunta alla settima edizione. Ogni volta, un argomento diverso. Professori e medici raccontano alla comunità alcune tra le patologie più diffuse descrivendone i rischi e raccomandando la prevenzione. Di queste meraviglie è piena l’Italia. Ciò che stupisce di più, tuttavia, non è l’entità degli interventi o i numeri raggiunti.

    In ogni gesto degli alpini per gli altri, stupisce soprattutto la naturalezza nel farlo. Come fosse un’alchimia perfetta di dovere e piacere. Viene da chiedersi: e se non ci fossero gli alpini? E non solo loro. Se non ci fosse quel fitto sottobosco che chiamiamo ‘volontariato’, cosa accadrebbe? Che ne sarebbe dell’anziano orfano e in difficoltà? Del tetto della chiesa che filtra acqua e piano si sgretola sotto gli occhi dei fedeli? Che ne sarebbe della gente comune priva di conoscenze altolocate eppure bisognosa alle volte anche solo di una parola di conforto? Saremmo infinitamente più poveri. E non di denari, ma di umanità. E invece qualcosa di grande e di buono ancora c’è.

    Qualcosa di vivo, come un formicaio nel bosco all’apparenza inerte ma che al suo interno nasconde un’operosità straordinaria. Contagiosa. E gli alpini son fatti così: impazienti e laboriosi. Smaniosi nell’aiutare, tendono la mano al vicino bisognoso, senza indugio alcuno. E allo stesso modo si adoperano per curare il proprio paese, un paese che racconta un passato e le sue tradizioni. Storie che si intrecciano e ritornano. Storie di una coscienza che nessuna tentazione potrà mai intaccare. Qualcuno li chiamerà gesti. Altri più evangelicamente, opere buone. Noi le chiameremo storie, favole di giornate trascorse tra picchi e badili, tra sorrisi e strette di mano, escogitando modi per racimolare quattrini, per non gravare su Comune e comunità. Per sveltire la famigerata burocrazia italiana perseguendo la logica della misericordia. Dimostrando così che i sogni, nell’abbraccio con la volontà, muovono il mondo.

    Mariolina Cattaneo