Gli alpini nella storia d’Italia (12ª puntata)

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    Da due battaglioni a cinque brigate

    Concluso il conflitto mondiale, l’Italia è un paese a “sovranità limitata”: il regime armistiziale e la presenza del governo militare alleato, unitamente alle difficoltà economiche dovute a cinque anni di conflitto e di bombardamenti, impediscono di affrontare la ricostruzione con la rapidità che molti vorrebbero. Entro questa cornice storica (che troverà sollievo solo con l’ingresso nell’Alleanza Atlantica del 1949), anche la rifondazione delle Truppe alpine subisce rallentamenti: dagli iniziali due battaglioni (“Piemonte” e “L’Aquila”) che avevano partecipato alla guerra di Liberazione, alla formazione delle cinque brigate che hanno costituito l’organico del Corpo sino agli anni Novanta (“Julia”, “Tridentina”, “Taurinense”, “Orobica”, “Cadore”), trascorrono otto anni.

     

    I primi reparti ad essere ricostituiti sono, nella primavera 1946, il 4°, 6° e 8° reggimento; nell’ottobre 1949 è la volta della brigata “Julia”, dislocata in Friuli e in Carnia; nel maggio 1951 la brigata “Tridentina”, dislocata nell’Alto Adige centro orientale; nell’aprile 1952 la brigata “Taurinense”, in Piemonte; nel 1953, infine, la “Orobica” (Alto Adige centro occidentale) e la “Cadore” (Bellunese e Cadore). Nell’estate 1948, inoltre, viene ricostituita la Scuola Militare Alpina di Aosta, che era stata sciolta in seguito all’armistizio. “Ricostituzione” non significa semplice riorganizzazione dei reparti sciolti o distrutti durante la guerra: significa anche riflessione sui compiti e sull’attualità delle Truppe alpine nel quadro di una situazione internazionale nuova e di una rapida evoluzione dei mezzi bellici.

    La domanda da cui prende le mosse il dibattito è netta e ineludibile: nell’era della guerra atomica inaugurata con i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, e proseguita con le ricerche e le sperimentazioni della bomba H, ha ancora senso parlare di “guerra di montagna”? Le risposte sono articolate in numerosi interventi comparsi sulla “Rivista Militare” tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta. Tra i tanti, vale la pena ricordare quello del generale Antonio Liberatore e quello dell’allora tenente colonnello Andrea Cucino.

    Il generale Liberatore non nega le trasformazioni in atto, ma proprio da queste trae conferma all’attualità della guerra in montagna: “Sembrerebbe anacronistico per un avversario ben dotato di forze aviotrasportate portare la guerra in quota, dove le operazioni ristagnano per la maggior parte dell’anno: ma è proprio la minaccia dell’arma nucleare sempre più potente, la maggior facilità a porre ostacoli rilevanti al movimento di mezzi ruotati o cingolati, la micidialità delle piane e delle colline che spingerà gli Stati Maggiori a ricercare la via più sicura o per lo meno più protetta da offese nucleari. Quale Stato Maggiore potrà assumersi la responsabilità di trascurare o anche solo sottovalutare la montagna?

    Le vie di alimentazione di montagna possono servire a un eventuale avversario per ammassare truppe e mezzi allo sbocco delle valli e, al momento opportuno, piombare nella piana sul fianco o sul tergo di unità operanti entro la soglia nucleare”. La conclusione del generale Liberatore è perentoria: “La micidialità delle armi nucleari rivalorizzerà la montagna e costringerà a ricercare vie più sicure, fra cui le classiche vie di invasione montane”.

    Le considerazioni che il generale Liberatore svolge dal punto di vista dell’attacco vengono sviluppate dal tenente colonnello Cucino dal punto di vista della difesa con uguale esito: “Data la compartimentazione e la localizzazione delle vie tattiche, si può asserire che le armi atomiche esaltano la capacità di arresto della difesa. Pertanto, più che in passato la difesa avrà la convenienza ad appoggiarsi alla montagna, che potrà utilizzare per organizzarvi ridotti controffensivi di grande importanza strategica e condurre una difesa economica, esaltando le caratteristiche dell’elasticità, della profondità e della reattività”.

    Dall’insieme del dibattito, il ruolo dell’alpino esce dunque valorizzato e le tradizionali caratteristiche del Corpo (reclutamento territoriale e addestramento in montagna) trovano una significativa conferma. Come scrive il generale Inaudi: “Anche se si parla di guerra atomica e di ‘push botton’, è sempre l’uomo a tracciare il cammino della storia e questo principio, valido in una guerra normale, lo sarà in misura ancor maggiore per la guerra in ambiente di ostacolo come quello montano”. Le considerazioni che un secolo prima avevano permesso a Perrucchetti di sostenere la sua originale tesi e di giungere alla costituzione del Corpo, vengono così riprese in un quadro storico e tecnologico completamente mutato. (12 – continua)

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