Gli alpini nella storia d’Italia (10ª puntata)

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    La Campagna di Russia: nella sacca del Don

    Nella notte del 22 giugno 1941 le truppe della Wehrmacht attaccano l’Unione Sovietica con tre gruppi di armate, che puntano sulle direttrici di Leningrado, Mosca e Kiev. Mussolini vuole assolutamente partecipare a quella che considera la “guerra santa” contro il bolscevismo e, dopo molte insistenze diplomatiche, ottiene la partecipazione del Corpo di Spedizione italiano in Russia (CSIR), forte di 60mila uomini. Nei mesi successivi le condizioni internazionali mutano drasticamente: la facile e rapida penetrazione nelle steppe sovietiche, immaginata da Hitler come un autonomo successo tedesco, è stata frenata dalla resistenza dell’Armata Rossa, e ora è la Germania a chiedere con insistenza la cooperazione italiana.

     

    Nasce così l’Armata Italiana in Russia, ARMIR, una spedizione di oltre 200mila uomini al comando del generale Italo Gariboldi che parte per il fronte orientale all’inizio dell’estate 1942. Fanno parte dell’ARMIR le tre Divisioni alpine “Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”, 18 battaglioni per un totale di 57mila uomini. La loro destinazione originaria sono le montagne del Caucaso, confermata ancora all’inizio di agosto, quando i reparti giungono in Russia dopo un logorante trasferimento ferroviario. Mentre le unità marciano verso il settore di operazioni assegnato, giunge però il contrordine del comando supremo che destina gli alpini al fronte del Don, dove i sovietici stanno concentrando la loro controffensiva.

    L’ambiente del Don è del tutto particolare: si tratta di un tavolato attraversato da numerosi corsi d’acqua, con temperature invernali che scendono anche a -40° e trasformano i fiumi ghiacciati in passerelle dove possono passare mezzi a motore. In queste condizioni un esercito invasore dovrebbe disporre di mezzi corazzati, di armi anticarro, di artiglieria contraerea. Il Corpo d’Armata alpino dispone invece di 4.800 muli e di 1.600 automezzi (questi ultimi privi di lubrificanti antigelo): non ci sono né mezzi spazzaneve, né slitte, né mezzi cingolati, né vestiario adeguato; le armi individuali sono costituite dagli antiquati fucili modello ’91 e dal fucile mitragliatore Breda ’30, che ai primi freddi diventa inutilizzabile perchè ghiaccia l’olio della scatola-motore.

    Dopo qualche settimana di stasi operativa, inizia l’attacco dell’Armata Rossa, che riesce a sfondare le ali della linea difensiva italo-tedesca: mentre le truppe germaniche ripiegano verso retrovie più sicure, alle forze del Corpo d’Armata alpino, che occupano il saliente dello schieramento, viene ordinato di mantenere le posizioni. Il risultato è che il 17 gennaio 1943, quando il generale Nasci firma l’ordine di ripiegamento, gli alpini sono ormai circondati da ambo i lati: è la cosiddetta “sacca del Don”, drammaticamente consegnata alla memoria dalla letteratura di guerra più diffusa (Mario Rigoni Stern, Giulio Bedeschi, Nuto Revelli).

    Gli strumenti dello storico non sono i più adatti per ricostruire gli avvenimenti dal 17 al 31 gennaio 1943, con le colonne di alpini dispersi nell’inverno russo, costrette ad aprirsi la strada lottando in una serie di aspri combattimenti, muovendosi in condizioni meteorologiche al limite della sopravvivenza, procedendo sempre a piedi, sopravanzate dai reparti motorizzati sovietici che colpiscono senza sosta. Più di ogni altra considerazione, valgono i numeri: su 57mila uomini, si contano 34.170 morti e dispersi e 9.410 tra feriti e congelati, cioè oltre l’80% di perdite. Tra le tante testimonianze, citiamo quella di Bartolomeo Ferrero, classe 1916: un freddo da gelare.

    Siamo in colonna, nella notte sfiliamo in un vallone, i russi ci individuano e sparano con i mortai e le katiusce, vediamo solo fiamme intorno a noi. ‘Di corsa, di corsa’, gridano i nostri ufficiali. Le compagnie si disperdono, soletteratuno tanti i morti, e un solo grido nella valle “aiuto aiuto, mamma mamma”. La sconfitta di Russia non può essere imputata alla superiorità in armi e mezzi del nemico. Di chi è la responsabilità se le Divisioni italiane affrontano una ritirata senza mezzi di trasporto né armi personali? Chi ha mandato a –40° un esercito attrezzato al massimo per l’inverno padano? La sconfitta di Russia è la sconfitta del regime fascista, della sua gestione della politica estera e militare, della classe dirigente complice del Duce: “Il male non è soltanto di chi lo fa – scrive Giulio Bedeschi parafrasando Tucidide – ma anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce”.

    Ai montanari inquadrati nelle Divisioni alpine resta l’orgoglio di un’altra pagina di storia scritta con il proprio sangue, ma soprattutto la tragedia delle migliaia di “gavette di ghiaccio” sotterrate per sempre nella steppa. (10 – continua)

    Gianni Oliva

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