Gli alpini nella storia d’Italia (7ª puntata)

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    Il 4 novembre 1918 l’armistizio di Villa Giusti pone fine ad oltre tre anni di conflitto e anche per i 61 battaglioni di alpini inizia il lento ritorno alla normalità. A onor del vero, il termine “normalità” ha un valore relativo nel trambusto di fine guerra: al comprensibile desiderio di ufficiali e soldati di essere restituiti alla vita civile si contrapponevano difficoltà oggettive, dalla necessità di presidiare le nuove frontiere all’esigenza di riorganizzare i servizi territoriali e le unità combattenti, all’urgenza di assistere le popolazioni delle terre liberate, all’impegno di accogliere e riordinare gli ex prigionieri che tornano dall’Austria.

     

    Lentezze e ritardi nei congedi diventano inevitabili: le classi più anziane, dal 1874 al 1879, vengono congedate all’inizio del 1919; nel corso dell’anno tocca alle classi sino al 1896; per le altre occorre aspettare il 1920, quando gli 8 reggimenti alpini riprendono quasi per intero la fisionomia che avevano nel 1914 (1° rgt., battaglioni “Ceva” e “Mondovì’”; 2° rgt. “Borgo San Dalmazzo”, “Dronero”, “Saluzzo”; 3° rgt. “Pinerolo”, “Fenestrelle”, “Exilles”, “Susa”; 4° rgt. “Ivrea”, “Aosta”, “Monte Levanna”, “Intra”; 5° rgt. “Trento”, “Tirano”, “Edolo”, “Vestone”; 6° rgt. “Verona”, “Vicenza”, “Bassano”; 7° rgt. “Feltre”, “Belluno”, “Pieve di Cadore”; 8° rgt. “Tolmezzo”, “Cividale”, “Gemona”).

    Alla fine del 1920 un nuovo ordinamento del Regio Esercito organizza le Truppe alpine in tre Divisioni corrispondenti ai settori della frontiera settentrionale, occidentale, orientale: ogni divisione è formata da 3 reggimenti alpini (viene così costituito il 9° reggimento, con comando a Gorizia) e un reggimento di artiglieria alpina. Nel 1923 il nuovo ordinamento Diaz sostituisce al comando di Divisione alpina il comando di Raggruppamento alpini, mentre viene istituito l’Ufficio generale a disposizione per le Truppe alpine.

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    Per capire che cosa capita nei vent’anni successivi, quando si afferma il regime fascista, bisogna spendere qualche parola sull’insieme della politica militare di Mussolini. Per creare il consenso e aggregare attorno ai propri miti le masse popolari uscite dall’esperienza della guerra, il regime ha estremo bisogno dell’appoggio delle Forze Armate: si tratta di creare un clima di continua mobilitazione, di esaltazione patriottica, di illusioni di potenza, di evasione dai grigiori quotidiani. In questa prospettiva al regime non interessano l’efficienza militare e la qualità dell’addestramento, ma la dilatazione quantitativa dei reparti, la spettacolarità delle parate, la risonanza numerica degli uomini mobilitabili.

    Nella stessa direzione va il recupero storico della Grande Guerra, con i seicentomila morti, le schiere infinite di mutilati e invalidi, le vedove di guerra trasformate nella giustificazione morale della corsa allo spazio vitale. Significativo, in questo senso, un discorso rivolto da Mussolini agli alpini convenuti a Roma nel 1934 per l’Adunata annuale, nel quale le tradizionali virtù del Corpo vengono reinterpretate in funzione delle ambizioni espansionistiche del regime: «Camerati alpini, oggi voi avete vedute le grandi trasformazioni di questa Roma imperiale, cristiana, sabauda. Chi dice alpini dice forza, tenacia, sangue freddo, sprezzo del pericolo: in una parola, eroismo. Conservate queste virtù e trasmettetele ai vostri figli. Non sono le Alpi che fanno gli alpini, ma gli alpini che fanno le Alpi. Per quella imponente catena di montagne che Iddio pose a difesa della Patria, voi avete inciso il fierissimo motto ‘Di qui non si passa’. Ma gli alpini della guerra vittoriosa e della rivoluzione fascista dicono anche ‘quando sia necessario, per difendersi si va oltre’».

    Da questa impostazione derivano i tratti della politica militare del Ventennio: dilatazione numerica dei reparti, impiego di grandi unità, strategia offensiva, svincolo da compiti di copertura alla frontiera. In altre parole, spettacolarità e spirito espansionistico. Le trasformazioni delle Truppe alpine in quel periodo sono in sintonia con la logica imposta dal regime alle forze armate. Le tre Divisioni del 1920 diventano cinque nel 1937: “Taurinense”, “Cuneense”, “Julia”, “Tridentina”, “Pusteria”; nello stesso anno, si aggiungono i reparti di “Guardia di frontiera”, chiamati ad assolvere i compiti di vigilanza al confine. Vengono inoltre costituiti cinque battaglioni misto Genio (uno per divisione), il battaglione Duca degli Abruzzi aggregato alla Scuola Alpina di Aosta, il battaglione Uork Amba. In totale, 31 battaglioni, 93 compagnie, 10 gruppi di artiglieria alpina, 30 batterie, articolati su cinque comandi divisionali.

    La dottrina di impiego di questo complesso di forze non nasce da un confronto di idee (tra il 1922 e il 1939 la “Rivista Militare” dedica solo due articoli alla guerra alpina), ma adegua all’ambiente operativo montano le indicazioni generali della cultura militare fascista: operazioni offensive condotte in forze, con reparti addestrati alla manovra di largo raggio, anche sequesto è contrario alla natura stessa della guerra di montagna, dove si deve operare per piccoli gruppi. Esemplificative, in questo senso, le “Norme per l’addestramento delle unità alpine”, pubblicate nel 1937. L’azione offensiva viene impostata insistendo su due elementi, la “massa” e la “sorpresa”, che nella guerra di montagna sono palesemente antitetici.

    La sorpresa implica infatti la penetrazione nello schieramento nemico di piccoli nuclei, mentre l’impiego di grandi unità è funzionale ad una manovra avvolgente. Se è vero, come è stato scritto da più parti, che il Regio Esercito si è avviato alla seconda guerra mondiale senza una seria dottrina di impiego, questo è ancora più vero per le Truppe alpine, strette tra l’esigenza di operare in un ambiente non adatto alle grandi Unità e l’impostazione opposta (di natura politica, prima ancora che militare) del regime fascista. (7 – continua)

    Gianni Oliva

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