Gli alpini nella storia d’Italia (8ª puntata)

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    Giugno 1940. La Campagna nelle Alpi occidentali

    Quando Mussolini, il 10 giugno 1940, annuncia dal balcone di Palazzo Venezia l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, per gli alpini si apre una nuova, drammatica, sanguinosa pagina di storia. La prima “Campagna” è sulle Alpi occidentali, contro un nemico – la Francia – che le armate di Hitler hanno già travolto attaccando da Nord e da Est. L’Italia fascista vuole assicurarsi un “posto a tavola” quando si tratterà di dividere il bottino e attacca da sud. È un’azione che i francesi non ci perdoneranno mai, una pugnalata alla schiena ad un Paese già prostrato. Ed è un’azione che anche in Italia suscita imbarazzo e non piace a molti, primi fra tutti proprio agli alpini.

     

    Perché attaccare la Francia? È il Paese che ha aiutato il nostro Risorgimento nazionale, ma soprattutto è il Paese dove molti contadini del Piemonte, della Liguria, della Valle d’Aosta, della Lombardia, dell’Emilia sono emigrati in tempi grami e hanno ottenuto un lavoro. C’è chi ha trovato moglie ed è tornato in Italia con la donna francese, c’è chi si è trasferito definitivamente: tante famiglie, ormai, sono sparse al di qua e al di là delle Alpi. È una guerra che non si capisce e non si vuole, come ammettono gli stessi preoccupati rapporti della polizia politica di Mussolini: “Dovunque si deve constatare la mancanza di entusiasmo – vi si legge – e dovunque si ripete il monotono ritornello dell’aspirazione alla licenza e al congedo”.

    Per gli alpini di origine piemontese e valdostana il disagio è acuito dalla constatazione delle ripercussioni sociali ed economiche della guerra sulla popolazione civile. I piani di sfollamento provocano l’evacuazione forzata di molti comuni di confine (Bardonecchia e l’alta valle di Susa in provincia di Torino, Courmayeur, La Thuile, Pre-Saint Didier in valle d’Aosta, tutti i centri abitati delle valli cuneesi) e l’effetto demoralizzante di questa massa di gente che scende le valli mentre i soldati le risalgono, è vistoso. Il 13 giugno l’alpino Vincenzo Gonella di Ceva (Cuneo) scrive: “Ho assistito, cara mamma, a cose che fanno strappare il cuore: son due giorni che immense colonne di profughi provenienti dai vicini paesi di confine arrivano qua e vengono man mano mandati via col treno. Vecchi e vecchie che a stento si trascinano, donne con bambini ancora in fasce, tutti con gli occhi gonfi. Povera gente, dover abbandonare così le proprie case, le bestie, tutto!”.

    In questa cornice generale di depressione e di dubbio, gli alpini vengono mandati all’attacco con le quattro Divisioni schierate sul fronte di guerra: la “Taurinense” lungo la linea di frontiera alla testata della Dora Baltea, la “Tridentina” in seconda schiera nella stessa vallata, la “Pusteria” nella Val Tanaro tra Garessio e Ormea, la “Cuneense” nella Valle Gesso tra Borgo San Dalmazzo e Caraglio. Questi reparti sono inquadrati nel Gruppo Armate Ovest, oltre 315mila uomini al comando del Principe di Piemonte Umberto di Savoia.

    Di fronte a loro c’è l’Armée des Alpes del generale Orly, che non raggiunge le 200mila unità, ma si giova di un sistema difensivo di prim’ordine, favorito dalle condizioni del terreno per la profondità della fascia alpina francese, e attrezzato con un complesso di oltre quattrocento opere servite da un’ottima rete stradale e ferroviaria.

    Alle difficoltà oggettive del teatro operativo, si aggiungono gli equivoci della strategia italiana. Ancora tre giorni prima, il 7 giugno, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito maresciallo Graziani, ha comunicato al Gruppo Armate Ovest che di fronte alla Francia “deve mantenersi contegno assolutamente difensivo” e secondo tale criterio viene regolato lo schieramento delle Divisioni.

    La brusca decisione di Mussolini di accelerare l’intervento (nel timore che la Germania vinca rapidamente la guerra da sola) coglie così il Regio Esercito totalmente impreparato: la Campagna inizia, infatti, con un piano operativo che non prevede uno schieramento offensivo, ma solo una disposizione di truppe lungo la linea di confine a scopo deterrente.

    I primi giorni sono così occupati da brevi scontri, piccole azioni offensive allo scopo di agganciare truppe avversarie (in cui gli alpini del battaglione “Intra” hanno i primi Caduti del secondo conflitto mondiale). L’attacco a fondo su tutto il fronte inizia solo il giorno 21, con le Divisioni alpine in prima linea: i risultati sono la penetrazione oltre il Piccolo San Bernardo, sino a Bourg-Saint-Maurice, nel settore settentrionale; in quello centrale, si raggiunge la valle francese del Ribon, aggirando le postazioni difensive del Moncenisio; nel settore meridionale, la distanza dei reparti alpini dalla linea di confine comporta invece lunghe marce di avvicinamento e solo il 23 le truppe sono in grado di attaccare.

    Il 24 giugno, però, il maresciallo Petain avanza la richiesta di armistizio e a partire dalle ore 1.25 del 25 le operazioni sono sospese: la Francia è ormai un Paese sconfitto, con i cingolati tedeschi che girano nei boulevards di Parigi e le svastiche naziste che sostituiscono il tricolore delle libertà rivoluzionarie. L’Italia ha ottenuto poco: piccole penetrazioni nella Francia sudorientale, avamposti di confine, casematte disposte tra i roccioni delle Alpi.

    Per il regime, ce n’è abbastanza per celebrare la vittoria e per fingere di non vedere l’inadeguatezza della nostra organizzazione militare (oltre 2150 congelati in piena estate!). Per gli alpini (e per gli altri soldati del nostro esercito) l’esperienza è servita a capire che gli “otto milioni di baionette” decantati nel Ventennio sono una truffa propagandistica e che altre, ben più drammatiche prove, stanno per essere affrontate. (8 – continua)

    Gianni Oliva

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