Il papà dei prigionieri

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    Ricordo ciò che mi disse mia madre: “Sii prudente, evita i pericoli, pensa a noi che aspettiamo il tuo ritorno”. “Preoccupati della salute dei tuoi soldati, alla tua provvederà il Signore” aggiunse il papà. Con questi ricordi partì per la Russia la sera di Natale del 1941 il tenente medico Enrico Reginato, era del battaglione alpini sciatori Monte Cervino. Tornerà a casa 12 anni più tardi dell’ultimo soldato del battaglione. Il nome di questo reparto è diventato una leggenda: erano tutti campioni di sci e di roccia, dal primo all’ultimo, compreso il cappellano. Dal fronte russo ne tornerà uno su dieci. La notte del 27 aprile del 1942 il “Cervino” giunse a Wascilowo; mentre si apprestava ad andare in linea un gruppo di partigiani sovietici effettuò un colpo di mano, e in quell’occasione venne catturato Reginato. Ha inizio da quella notte la sua allucinante peregrinazione tra i campi di prigionia, un calvario che durerà fino al febbraio del 1954.

    Quest’uomo rimarrà sul fronte della prigionia, dove più ancora che in prima linea c’era il modo di dimostrare valore, negli ospedali, nelle carceri, nei campi di lavoro, prodigandosi per tutti, dagli italiani ai russi, dai tedeschi ai rumeni a Oranki, nei Campi di Kiev, a Susdal, a Krinovaja; a Suslangher, a Mosca, nel Carcere a Voronez, a Providanka, Stalino, nella miniera di Mosketo… per citarne solo alcuni, nomi tremendi. “L’assistenza di Reginato ai malati e ai moribondi fu semplicemente sublime” testimonia don Brevi nei suoi scritti (Russia 1942-1954) e così don Caneva riconoscendone l’eroicità delle virtù: “Era ancora notte, visibili quindi le luci del campo il cui portone si aprì davanti a noi prigionieri. Occorreva fare subito il bagno di disinfestazione. Venne da noi Reginato e pregò quelli che stavano fra noi meno peggio, di aiutarlo ad accompagnare al bagno quelli che non si reggevano in piedi. Reginato era da ore che faceva la spola tra il bagno e le baracche. Era stanco, sfinito. Sedette su una panca e si misurò la febbre: 38! Cercai di convincerlo ad andarsi a riposare. Ho ancora un turno di ammalati, disse, solo dopo potrò andare a dormire. I morti intanto venivano ammucchiati, completamente nudi, in una stanza vicino al portone di ingresso, per essere poi sepolti, nelle giornate meno fredde, in una fossa comune. Un giorno Reginato, che aveva aiutato a trasportare i morti in quella stanza, nel rimuovere le salme che già vi si trovavano, per far posto alle nuove, si accorse che una non aveva la consueta rigidità dei cadaveri, pur trovandosi lì da due giorni. Convinto che si trattasse di un rumeno, lo chiamò e gli parlò in quella lingua. Non si muoveva, non dava segni di vita. Polso non ne aveva, gli parve e non gli parve d’udire un impercettibile battito di cuore, ma ciò che lo convinse, furono due lacrime che gli vide scendere dagli occhi. ‘È vivo!’, urlò e si fece aiutare a portarlo al caldo in una baracca. Dopo opportuni massaggi ‘il morto’ cominciò a dar segni di vita e a parlare: era il ten. Santoro del 3º reggimento bersaglieri. Ci descrisse egli stesso, pochi mesi dopo, lo sforzo sovrumano col quale, in quei terribili momenti lui, che sentiva e vedeva tutto, cercava di dare un qualsiasi segno di vita e la sua disperazione nel non riuscirvi” (Calvario Bianco, di don Carlo Caneva, fondatore del Tempio di Cargnacco).

    Racconta Manlio Francesconi nel suo Siamo tornati insieme: “Era veneto e parlava in dialetto, anche con gli stranieri. Alto, bruno, sempre sereno, infondeva in noi fiducia e speranza con la sua voce familiare. L’ho visto amputare le dita congelate dei piedi di un tenente con una lametta da barba, l’ho visto tirar fuori parte della sua razione per darla a un malato, l’ho visto sorridere a chi aveva la morte sul viso”. Reginato è stato ufficiale, medico, prigioniero, ammalato, infermiere, scaricatore, muratore, condannato dai russi come criminale di guerra. È stato anche scrittore e nel suo unico libro è riuscito a trasferire le sue esperienze e la sua testimonianza senza enfasi e con la modestia di chi ha ritenuto di aver fatto soltanto il proprio dovere di uomo, di medico, di alpino. È un libro che si arricchisce, pagina dopo pagina, di ricordi, di luoghi e di nomi recitati a memoria ogni sera per anni ma ora finalmente scritti per sempre, come quello di Italo Stagno, l’amico più intimo e caro.

    Così racconta nel suo 12 anni di prigionia nell’Urss: “In una sola notte abbiamo visto morire più di 400 uomini, eravamo pazienti noi stessi”. Si spensero il cappellano del Mondovì don Frascati e il ten. De Strobel della Julia, tenendosi per mano e stringendo la corona del rosario; morì stremato dalle fatiche don Roberto, un salesiano del Dronero. Accanto all’immensa opera dei cappellani militari come don Franzoni, don Casagrande, don Brevi, don Caneva, don Turla, c’era la sua: “Assieme alle nuove notizie, Reginato soleva portare anche una gavetta cascia, la minestra di cereali russa. La consegnava ora all’uno, ora all’altro, preferendo i più affamati e i più deboli, io ero tra questi”, quando non aveva nulla con cui alleviare le ferite, il tifo, la fame, quando mancava tutto dall’acqua ai medicinali, offriva una parola di conforto (Davai. Racconti di un sopravvissuto, di Luigi Palmieri). Nel 1944 Reginato fu trasferito nel Campo di Kramatorsk dove erano ammassati centinaia di soldati rumeni in condizioni disperate. Le sue incessanti richieste per bonificare gli ambienti rimasero inascoltate dai russi per molto tempo: “Puntualmente scoppiò il tifo! Morivano 10-15 soldati al giorno. A un certo momento l’epidemia colpì anche le infermiere russe, il direttore sanitario e non risparmiò neppure l’ufficiale politico. Finalmente i russi fecero intervenire il loro apparato sanitario, le mie richieste furono ascoltate… l’epidemia finalmente cessò”.

    Reginato era riuscito a fermare l’epidemia. Non ebbe premi… non fu condannato per questo. Assieme ad altri 27 irriducibili, Reginato sarà liberato dopo 142 mesi di prigionia. Al suo rientro in Patria gli furono attribuite onorificenze al più alto livello da parte dei Ministeri degli Esteri delle altre nazioni poiché aveva salvato dalla morte non solo centinaia di soldati appartenenti agli eserciti exalleati, ma anche quelli con la “stella rossa” sull’elmetto o semplicemente uno “sconosciuto figlio di Dio”. In Italia solo più tardi gli fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare per quello che fece in prigionia ammalandosi egli stesso, per lo spirito dimostrato, per le sofferenze alleviate a poveri corpi disfatti dal male, per il coraggio missionario con cui si sacrificò per gli ammalati e i morenti. Ha avuto la Croce al Merito di prima classe dalla Repubblica Federale Tedesca. Ricoprì prestigiosi incarichi nell’ambito della Sanità Militare Patavina fino alla nomina a Dirigente Sanitario presso il Comando Generale dei Carabinieri a Roma.

    Nel maggio del 1974, con il grado di maggior generale medico, diventa comandante della Scuola di Sanità Militare di Firenze. Dopo aver salvato centinaia di soldati non riuscì a salvare sé stesso da una lunga malattia; perse la sua ultima battaglia il 6 aprile del 1990. Al generale Reginato furono intitolati l’ex Ospedale Militare di Udine e il Reparto di Cardiologia dell’Ospedale Militare di Padova; inoltre, ne porta orgogliosamente il nome uno dei Gruppi di Treviso, la città che lo vide nascere nel 1913. Al dotor de S. Bona gli alpini trevigiani, riconoscenti, hanno da poco eretto un monumento e il Comune gli ha dedicata una via. Il gen. Enrico Reginato oggi avrebbe quattro nipoti: il primo si chiama Enrico, proprio come lui, ed è un violoncellista, mentre una delle sue nipoti risponde al nome di Julia… sono queste le “medaglie” più belle mai ricevute.

    Un uomo che ha onorato l’Italia, gli alpini, la sua professione, la sua città e la sua famiglia compie un ultimo gesto meraviglioso che rivela tutta la profondità della sua fede, riesce a distillare in poche righe tutto il dolore raccolto e le trasforma in una preghiera: “Voglia Iddio ascoltare la nostra preghiera per il calvario dei nostri soldati, per tanto sacrificio e tanto dolore. Conceda che l’umanità comprenda che la più grande conquista dell’uomo, la sola grande conquista è quella di farsi degni di reciproco rispetto, di riconoscersi degni di reciproco amore. Reginato, ancora grazie per l’infinita schiera di morti ai quali hai rivolto un’ultima parola di fede e di conforto”, Giuseppe Bassi.

    Franco Cabrio