Figlio della montagna

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    «Sono una bestia io, lei – e fa un cenno con la testa all’indietro, a un passato lontano – un animale. Ha un grado in più. Capisci?». È il racconto della sua mula, la Rada. Diciotto mesi di naja dura che «rifarei domani, per quello che mi ha lasciato e per tornare ad avere vent’anni ». Luigi Oreiller abita a Rhêmes- Notre Dame da sempre, una manciata di case di pietra e legno, accerchiata dalle montagne che incombono severe, come solo quelle valdostane sanno essere. Cime innevate a nord e persino a sud.

    Se i muri e i sassi di questo paese, e la Dora che lo traversa nel mezzo, potessero parlare, racconterebbero di un uomo giusto, osservatore instancabile della natura. «A tredici anni avevo sulle spalle uno zaino di 15 chili, era il mio primo viaggio, portavo riso e in cambio ricevevo la pelle intera di un animale. Valeva tantissimo». Punta il dito verso ovest: oltre quelle montagne c’è la Francia. Era il contrabbando per sbarcare il lunario e se avevi il fisico adatto, testa dura e sangue freddo, potevi fare un po’ di soldi e sistemare casa, pensare a una famiglia tua.

    «Al secondo viaggio i chili sono diventati 18, al terzo 22. Quel che prendevo io con un carico, mio padre lo guadagnava in un mese. Sempre sulla neve, con due sci l’uno diverso dall’altro. Era un mestiere per l’inverno perché d’estate dovevo restare qui, avevamo un po’ di terreno e qualche bestia, c’era da fare». Di mestieri Luigi ne ha fatti parecchi, diversi ma sempre con lo stesso orizzonte fatto di cime che toccano l’azzurro, poi scendono e risalgono in un susseguirsi infinito come il tempo. «Quando ero guardiaparco, da quella montagna vedevo la mia casa. E quando nel 1968 è nato mio figlio avevo escogitato un sistema per comunicare con mia moglie Nathalie, non c’erano mica i telefonini allora. Se tutto andava bene lasciava appeso fuori un asciugamano bianco, altrimenti uno rosso che però, grazie a Dio, non è mai servito». Si intrecciano i ricordi, sono tantissimi e riemergono in disordine, ma nitidi e precisi.

    «Ho imparato tanto dagli animali, solo guardandoli. A naja carezzavo la Rada, ‘è indomabile quella!’ dicevano. Ma un giorno alla volta, una carezza e un boccone di pane, me la sono fatta amica. Prima ancora di vedermi, sentiva il mio odore e nitriva». Da guardiaparco sulle sue montagne ha studiato i comportamenti di tanti animali: «Il mio preferito resta lo stambecco, la femmina. Ho sempre pensato che avendo il cranio piccolo fosse poco intelligente. Come mi sbagliavo! Dopo la stagione dell’amore le femmine si separano dai maschi, allevano i cuccioli da sole, tenendoli tra le zampe, sotto la pancia. Cosi li preservano dall’aquila e da ogni pericolo. E poi ventiquattrore prima che scenda una valanga si nascondono, spariscono. Lo sanno, e non sbagliano mai».

    Ci mostra quella che era una stalla e che oggi è il suo laboratorio. Luigi lavora il legno e ha uno stile tutto suo, si lascia guidare dall’ispirazione: «Alle volte perdo la pazienza e qualche pezzo finisce nella stufa!». Ci sono stambecchi, camosci, accanto a crocifissi e volti: «I miei avi erano tutti combattenti, non ho fotografie e allora li ho scolpiti. Questo è lo zio che entrò per primo a Porta Pia il 20 settembre 1870 e morì travolto da un colpo di cannone. E questo è padre Brevi, l’ho conosciuto. Celebrava la Messa e piangeva ancora per quel che aveva vissuto in Russia». Ma il ricordo più bello che svela Luigi è legato alla madre: «Era una donna che non ho mai visto ferma, una donna di poche parole.

    L’ultimo giorno prima di morire ero con lei in ospedale, mi chiese di portarla in bagno. Non voleva che la prendessi in braccio e allora un passo alla volta, insieme. Quando si è stesa sul letto, mi ha guardato e mi ha detto: ‘Non avevo mica bisogno di andare in bagno: io ti ho insegnato a fare i primi passi e tu mi hai fatto fare gli ultimi. Sono nata povera, ma muoio ricca’». Sono gli uomini della montagna che non finiremmo mai di ascoltare, né di osservare. Sono cauti, lenti, silenziosi ma capaci di aprirsi e di raccontare la poesia che sta nelle cose semplici della vita.

    Guardando gli occhi celesti di Luigi, tondi e vispi come quelli di un animale del bosco, i suoi modi, le sue mani forti, affusolate, ho ricordato un passo di un altro gigante della montagna, Mario Rigoni Stern che scrisse “il tempo nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso. La Nord del Cervino è molto più lunga dell’autostrada del Sole”. La cifra calcola l’età, non misura il vissuto dell’uomo. Luigi e la Valle di Rhêmes sono uno parte dell’altra, legati a filo doppio per la vita.

    Mariolina Cattaneo