Per la passione di cantare insieme

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    Con questo contributo L’Alpino sospende temporaneamente la pubblicazione di interventi sulla coralità. Tutto il materiale che perviene alla redazione passa, come sempre, al Centro Studi che, per competenza, si occupa della materia. Ringraziamo quanti hanno partecipato al dibattito e ci scusiamo con tutti quelli che non hanno visto pubblicati i loro scritti.


    Il dibattito promosso da L’Alpino ha posto all’attenzione aspetti cruciali della coralità alpina, riguardo ai suoi caratteri, alla sua ragion d’essere, alle sue prospettive; fino alla più radicale delle questioni sollevata da Bepi De Marzi: se il canto di montagna esista davvero, o sia piuttosto canto per la montagna; e se i canti degli alpini siano veramente tali, o siano piuttosto canti preferiti dagli alpini, per il fatto (come ha scritto e detto in altre occasioni) che La guerra non dà canti, non ha mai dato canti .

    Siamo al cuore del problema, ai limiti di quella che potrebbe apparire una stroncatura devastante ma che tale non è se quelle affermazioni, lette fuor di paradosso, possono mettere in guardia da sterili attaccamenti alle forme e da derive improprie, offrendo indicazioni preziose per i cori di montagna. Se la coralità moderna si attestasse solo sulla riproduzione dei caratteri originari dei canti e delle esecuzioni correrebbe il rischio di essere passivamente e inutilmente ripetitiva. Un rischio non minore correrebbe però se snaturasse i canti, se li facesse diventare qualitativamente altro trasmettendone più i caratteri esteriori che l’anima, la scaturigine autentica.

    Il problema ruota attorno alla capacità di dare sviluppo alle più profonde potenzialità espressive dei canti, rendendoli significativi oltre i tempi, gli spazi e i modi delle loro origini. In questo riconosciamo la geniale invenzione , negli anni 20, dei fratelli Pedrotti e di Luigi Pigarelli grazie alle cui rielaborazioni molti canti alpini hanno avuto straordinaria diffusione e cori di montagna hanno proliferato ad ogni altitudine. Certo, nessuno in montagna cantava al modo di Pigarelli e della SAT prima che Pigarelli facesse le armonizzazioni per la SAT; ed in trincea era impensabile (e sarebbe stato folle) schierarsi a quattro voci ogni volta che a qualcuno fosse venuta voglia di cantare.

    Ma non è casuale che quelle elaborazioni abbiano avuto successo nel consegnare alle generazioni successive, se non il come esattamente cantavano quei montanari e quei soldati, certamente cosa essi provavano, speravano, sentivano, facendone ripercorrere i vissuti e riprovare i brividi. Si pensi, per fare due notissimi esempi, alla genesi rispettivamente di Sui monti Scarpazi e La montanara ; si pensi al rilancio, molto al di là dei luoghi e delle circostanze storiche loro proprie, del Miserere sentito tra le trincee dell’uno e del Cantico d’amor echeggiante tra le rupi dell’altro.

    È nello sviluppo delle potenzialità espressive dei canti che risiede l’essenza della coralità, la funzione sociale e culturale dei cori che non voglia essere semplicemente trasmissiva e ripetitiva; ed è attraverso quello sviluppo che si conserva e si rigenera il carattere popolare dei canti. Il percorso di formazione di un canto popolare è complesso, partecipato, mai definitivo, sempre suscettibile di adattamenti. Come dice De Marzi, i canti degli alpini sono adattamenti di canti popolari preesistenti; i quali, aggiungerei, erano a loro volta adattamenti di ulteriori adattamenti..: perché il popolo (popolo di soldati, come di lavoratori, o di pellegrini, o di negri delle piantagioni, o di ragazzi spensierati) non compone dal nulla mettendosi al tavolo o al pianoforte; non ha né genio né tecnica; ha sentimenti, desideri, ricordi, e li esprime con quello che sa e con i mezzi che ha, riciclando, modificando, componendo per contaminazione, estrapolazione, fusione. Appunto, per adattamento.

    Non si tratta di un limite ma di una peculiarità, anzi della peculiarità; proprio questo carattere del canto popolare, il suo essere opera partecipata, collettiva, mai conclusa, gli consente di liberarsi da un’esistenza chiusa in se stessa, di per sé circoscritta ed effimera, e di avere significato e successo fuori dai contesti storici, geografici e culturali delle proprie origini.

    L’intento della raccolta di Jahier e di Gui fu dichiaratamente quello di trascrivere i canti così come venivano eseguiti in trincea, fermando colla scrittura questi canti del nostro sangue : non già perché fossero canti originali, ma perché quelle melodie e quelle parole avevano resistito alla tremenda sincerità della trincea accompagnando i giorni e le notti, i sogni e le paure, i cambi e i riposi, la ritirata e la grande avanzata ; e ne annotarono le varianti principali, ritenendole evidentemente non difetto ma carattere costitutivo, fino a precisare a proposito del Testamento , come ricorda De Marzi, che ogni Corpo se lo vuole appropriare .

    Non è privo di significato che siano stati i cori a riprendere quelli ed altri canti popolari reinterpretandoli e diffondendoli. Non si sarebbe salvato quel patrimonio senza le armonizzazioni di geniali musicisti, felice incontro di spontaneità popolare e creazione artistica, e senza l’impegno di tantissimi gruppi corali e la fitta rete dei loro rapporti.

    Non avrebbe superato, quel patrimonio, l’ondata degli avvenimenti che negli anni ’20 provocarono una trasformazione epocale della funzione e della natura del canto: la nascita, da un lato, della radiofonia e della discografia che resero marginale ciò che prima era sostanziale e cioè la dimensione esperienziale, diretta, partecipativa del canto; e l’uso massiccio, dall’altro lato, che il fascismo volle fare del canto a fini di propaganda politica favorendo anche un repertorio di guerra apocrifo.

    Fu agli inizi di queste trasformazioni che con la SAT prese corpo un nuovo modo di cantare insieme, capace di riaffermare invece il valore del canto come esperienza viva e condivisa, espressione di libertà e di umanità. Questo stesso valore reclamano le più felici e coinvolgenti composizioni moderne di ispirazione popolare e alpina tra cui svettano quelle di De Marzi. E ancora in questo consiste, tutt’oggi, la funzione culturale e sociale più alta che i cori possano svolgere insieme alla funzione più propriamente memoriale.

    Per onorarla può non essere necessario e forse neanche giovevole cristallizzare modelli interpretativi che pure hanno avuto nella storia grandi meriti e successi: ciò che conta è piuttosto mantenere vivi ed evocativi quei canti e passarli a coloro che verranno e che li accoglieranno avendo storie, culture, sensibilità, condizioni molto diverse dalle nostre in un modo che non solo ne assicuri la conservazione ma soprattutto ne rinnovi e rafforzi la capacità di alimentare la passione di cantare insieme.

    Nazzareno Gaspari Macerata
    nazzareno.gaspari@virgilio.it