Gli alpini nella storia d'Italia (5ª puntata)

    0
    88

    Se gli alpini sono popolari sin dalla costituzione del Corpo, il momento nel quale vengono proposti come immagine stessa della nazione è il 1915-18. La prima guerra mondiale, con le sue trincee, le asperità montagnose del confine nordorientale, il terreno conquistato o difeso palmo a palmo sembrava fatta apposta per esaltare le caratteristiche degli alpini. In una “guerra di movimento” contano il dinamismo dei reparti e lo slancio sul campo di battaglia (per questo il soldato per eccellenza del Risorgimento è stato il bersagliere): in una “guerra di posizione” contano invece la fermezza, la pazienza, la perseveranza, la resistenza.

    L’ardito che si lancia contro i reticolati nemici strappando con i denti la sicura della bomba a mano, è un’esaltazione postuma del Ventennio fascista; negli anni di guerra, tra il 1915 e il 1918, la comunicazione patriottica punta invece sull’alpino, il simbolo della compattezza morale delle forze armate nazionali, il soldato che “non molla mai”, che mantiene le posizioni tra le rocce e la neve, che raggiunge creste impossibili. Le tavole della “Domenica del Corriere” disegnate da Achille Beltrame (forse il più efficace strumento propagandistico dell’epoca) ne sono l’esempio migliore: i soldati mobilitati nel corso del conflitto sono oltre 5 milioni, ma almeno metà delle immagini di Beltrame sono dedicate agli alpini, che pure costituivano una percentuale minima rispetto alla totalità del Regio esercito.

    Già, ma quanti sono stati gli alpini impegnati nella guerra? La risposta non è facile. Il numero delle Compagnie (computando quelle in organico nel 1914 e quelle costituite nel corso del 1915 e 1916) è di 311: calcolando una consistenza di circa 250 uomini per Compagnia, si ha un totale di poco inferiore alle 80mila unità. La cifra è però puramente indicativa, perchè gli effettivi variavano e i vuoti lasciati dai Caduti e dai feriti venivano colmati dalle nuove leve. Altrettanto difficile calcolare le perdite: in alcuni casi le relazioni ufficiali curate dall’Ufficio Storico dell’Esercito riportano dati precisi (nell’undicesima battaglia dell’Isonzo, ad esempio, risultano caduti 28 ufficiali e 248 alpini), in altri casi i dati sono invece mancanti o incompleti. Inutile quindi azzardare cifre, che rischierebbero di essere arrotondate per difetto: basti considerare che la cifra complessiva delle perdite, riferita a tutto l’esercito, è pari a circa 1/7 della forza mobilitata e che il rapporto, per quanto riguarda gli alpini, è sicuramente maggiore per il prevalente impegno in prima linea e per il fattore-rischio rappresentato dall’alta quota.

    Tutte le fonti concordano nell’attribuire all’alpino che combatte nelle trincee caratteri distintivi peculiari: pur nell’ambito di una guerra accettata con rassegnazione piuttosto che compresa e voluta, il montanaro che indossa la divisa e il cappello con la penna nera dimostra equilibrio, senso del dovere, capacità di obbedienza, resistenza ai disagi. La testimonianza più riuscita mi pare essere quella di un alpino d’eccezione, Cesare Battisti: nato a Trento nel 1875 (quando la città faceva ancora parte dell’Impero asburgico), geografo e giornalista, deputato al Parlamento di Vienna, nel 1915 Battisti si arruolava volontario e veniva inquadrato dapprima nel battaglione alpini Edolo, quindi, promosso ufficiale, nel battaglione Vicenza del 6° reggimento.

    Durante l’estate 1916 partecipava alle operazioni sul Pasubio ma, fatto prigioniero e riconosciuto, era condannato a morte dagli austriaci per tradimento e il 12 luglio veniva impiccato al Castello del Buonconsiglio di Trento. Poco prima della cattura, egli scriveva: “L’alpino non si chiede quale sarà il suo domani, non ha paura delle vicende peggiori in cui può lanciarlo un’azione sfortunata. La voce del dovere gli dice và ed egli va senza spavalderia alcuna. Perchè quella sicura coscienza di sè, quel coraggio che si è creato attraverso lo spasimo, il dolore di intere generazioni di emigranti, si integrano nelle virtù proprie della razza montanina: la serietà, la persistenza e la bontà squisita del cuore”. Battisti riconosceva che l’adesione alla guerra delle popolazioni montane non derivava da sentimento irredentista: “Per quanto sia tutt’altro che limitata la cultura degli alpigiani, pur non risponderebbe a verità l’ammettere negli alpini una nozione più o meno precisa dell’irredentismo”.

    La stessa Campagna interventista della primavera 1915 non aveva raggiunto le vallate e “gli alpini che attendevano nei paeselli natii la chiamata alle armi, nulla seppero del fervore di vita che dal marzo al maggio decorso si schiuse nelle città d’Italia”. Ma c’erano altri motivi, non ideologici, che rendevano compatti i reparti alpini al fronte e il patriota trentino li sintetizzava in tre punti. Innanzitutto, il carattere forgiato dalla vita della montagna e dall’esperienza dell’emigrazione: “Gli alpini hanno trascorso la loro giovinezza tra pascoli e boschi, hanno vissuto lunghi inverni nella neve e nelle tormente, poco sanno d’agi e di ricchezze e tutto il loro patrimonio consiste in miseri campielli, in poveri tuguri. La scarsezza dei frutti della terra li condanna all’esilio in terra straniera, esilio che dura mesi e anni: esilio interrotto sempre, anche quando è fortunato, perchè un vivo sentimento nostalgico accompagna nel mondo questi alpigiani”. Da una tale scuola di vita, derivavano la prudenza e insieme la determinazione dei battaglioni alpini: “Nessun altro soldato ha come l’alpino la virtù della perseveranza.

    Chi, non avendo con loro familiarità, li vede partire dall’accampamento per andare in trincea o in ricognizione, a passo lento e misurato, prova quasi un senso di irritazione, ma dopo otto, dieci ore di marcia quegli alpini continuano con lo stesso passo, senza ombra di stanchezza. Egual costanza hanno nell’affrontare il nemico. Sono capaci di stare ore e ore aggrappati su un ciglione di roccia, in posizioni inverosimili, per essere pronti a un attacco improvviso. E quando da una trincea o da uno sperone di roccia ha cacciato il nemico, vi si attaccano come le ostriche allo scoglio”. Un secondo elemento caratterizzante era per Battisti la profonda conoscenza dell’ambiente operativo montano e l’accortezza con cui l’alpino sapeva muoversi tra le insidie del ghiaccio e delle rocce: “Dove un cittadino nuovo ai monti muore di sete, il montanaro, frugando con gli occhi, scova la sorgente. Dove altri si accascia nel dubbio di scegliere la strada, il montanaro procede sicuro, scruta le peste dei viandanti e degli animali: se c’è pericolo di valanga, subito intuisce quale è il posto atto al riparo; se la tormenta imperversa, sa come evitare l’assideramento.

    Questo spiega come decine di migliaia di alpini abbiano potuto passare l’inverno sui monti più alti senza perire”. Un terzo elemento, infine, si ricollegava al reclutamento regionale, ai vincoli di istintiva solidarietà che legavano gli uomini all’interno delle compagnie, ai rapporti di reciproca stima tra soldati e ufficiali, alla stessa struttura organizzativa del Corpo, con l’autonomia di cui godevano le compagnie: “Una compagnia alpina – scriveva ancora Battisti – è un piccolo mondo a sè. Aleggia su tutto uno spirito di ben intesa autonomia e tutti i componenti sono legati da un legame profondo di solidarietà. L’affiatamento tra ufficiali alpini e soldati alpini è maggiore che in qualsiasi altra truppa, perchè sono dominati entrambi da un’uguale passione per la montagna, e perchè anche in tempo di pace l’ufficiale alpino fa spontanea rinuncia per molti mesi l’anno della città, di circoli, di salotti e si adatta a vivere in modesti borghi di montagna”. Ciò che Cesare Battisti scriveva era la sintesi di una storia ormai pluridecennale, ma che proprio nella gravità storica del 1915-18 emergeva in tutta la sua evidenza: l’alpino combatteva, soffriva, moriva nelle trincee come i fanti e come i bersaglieri, ma si muoveva all’interno di un mondo di valori condivisi, quasi all’interno di una famiglia. Battisti poteva così concludere: “L’alpino che combatte al fronte ha una forza in più: egli non si sente mai solo”. (5 – continua)

    Gianni Oliva


    Articoli correlati: