APPROFONDIMENTI Un'impresa d'altri tempi. Il contributo degli alpini nella spedizione del Dirigibile Italia e nelle azioni di ricerca dei naufraghi

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Ai primi di marzo del 1928, l’Ispettore delle Truppe Alpine, generale Ottavio Zoppi, valoroso comandante della 1a Divisione d’Assalto durante la Grande Guerra, ed il generale Umberto Nobile si incontrarono a Bolzano, presso l’albergo Grifone, per definire la partecipazione degli alpini al seguito della spedizione polare, alla quale avevano già aderito Aeronautica e Marina Militare. In base al primo accordo gli alpini da inviare al seguito della spedizione dovevano essere dodici al comando di un ufficiale esperto di alpinismo.

Poi vennero ridotti a otto penne nere . Ricordo che fu Cesco Tomaselli, inviato speciale del Corriere della Sera, valoroso capitano degli alpini nella Prima Guerra Mondiale, decorato con due medaglie d’argento al valore militare, a sostenere con entusiasmo l’opportunità di inviare alpini in quella regione dominata dai ghiacci eterni. Gli alpini prescelti dall’Ispettorato delle Truppe Alpine erano guide e portatori per tradizione di famiglia, uomini assuefatti ai ghiacci e al freddo, abili sciatori dotati di spiccate qualità fisiche, morali ed umane.

Il comando di questi otto uomini fu affidato al capitano Gennaro Sora, del 6º Reggimento Alpini, un valoroso ufficiale della Prima Guerra Mondiale in possesso di un fisico eccezionale, una figura leggendaria che con le sue imprese è entrato da protagonista a far parte della Storia delle Truppe Alpine d’Italia. Vediamo chi erano questi otto magnifici alpini. Il sergente maggiore Giovanni Gualdi di Alagna Valsesia in forza al 1º Reggimento di artiglieria da montagna, un sottufficiale intelligente, generoso, robusto e resistente ad ogni fatica, impassibile in ogni frangente.

Il sergente maggiore Giuseppe Sandrini ventottenne camuno, del Battaglione Tirano, un atleta agilissimo, alpinista esperto e coraggioso, amante del rischio e ottimo conoscitore dei ghiacciai dell’Adamello che percorse sin da fanciullo. Il caporale Giulio Bich del Battaglione Aosta, un montanaro della Valtournanche, un vero esperto di roccia e di ghiaccio, sciatore abilissimo e fratello del famoso alpinista Edoardo Bich. L’alpino Angelo Casari, del Battaglione Morbegno, nativo di Lecco e domiciliato a Concenedo in Valsassina, possedeva elevate qualità fisiche e morali, era un ottimo sciatore e un alpinista molto esperto.

Un altro era l’alpino Silvio Pedrotti di Sondrio in forza al Tirano , di media statura, era calmo nelle parole e negli atti, viveva a Curlo presso Valmalenco, lavorava in miniera e d’estate saliva fra le alte vette e i ghiacciai a fare il portatore. L’ alpino Giulio Guidoz, del Battaglione Aosta, di Pre’ S. Didier, era un portatore esperto, molto sveglio e pieno di iniziativa, sciava molto bene e arrampicava su ogni specie di roccia e di ghiaccio. L’alpino Mario Deriard di Courmayer, era in forza anche lui al Battaglione Aosta.

Nipote di Petigax, la celebre guida del Duca degli Abruzzi, era un portatore di lunga esperienza avendo percorso tutti i ghiacciai del suo territorio. Degno compagno dei precedenti era l’alpino Beniamino Pelissier, del Battaglione Aosta, nativo di Antey S. Andrè in Valtournanche. Questi erano gli alpini scelti dall’Ispettorato delle Truppe Alpine, su proposta dei comandanti di Reggimento, fra migliaia di penne nere che erano alle armi.

Nel quadro generale della spedizione gli alpini dovevano rimettere in efficienza il gigantesco hangar di legno del Dirigibile presso la Baia del Re, situato alle Isole Svalbard (il cui nome in norvegese significa aguzze coste di ghiaccio ), assicurare i collegamenti fra la nave Città di Milano e l’hangar, costruire ricoveri per il personale, eseguire il carico e lo scarico delle migliaia di bombole di idrogeno e di materiali occorrenti alla spedizione e realizzare con appositi teloni il rivestimento del grande hangar per proteggere dalle intemperie il dirigibile Italia .

In caso di emergenza, dovuta a eventuali incidenti di volo dell’aeronave, gli alpini dovevano svolgere il duro e difficile compito delle ricerche e dei soccorsi agli eventuali superstiti dispersi sui ghiacci del Mar Artico o sulla terra ferma. I suoi Cadetti di Guascogna , come il capitano Sora li chiamava, si dimostrarono subito all’altezza dei compiti loro assegnati.

Dopo una lunga navigazione con la nave Città di Milano , durata quaranta giorni, durante i quali gli alpini concorsero ai servizi di bordo assieme ai marinai, il 2 maggio la nave arrivò alla Baia del Re e gli alpini, appena sbarcati, iniziarono subito a preparare le cariche di dinamite per aprire la strada alla nave Città di Milano incastrata nella banchisa ad un miglio dal pontile della Baia. Ma prima di raccontare la missione degli alpini al seguito della spedizione polare vorrei presentare il capitano Gennaro Sora, la sua figura, le sue eroiche gesta in guerra e in tempo di pace.

Gennaro Sora apparteneva a quella folta schiera di valorosi soldati della terra bergamasca. Nacque a Foresto Sparso, un paese della provincia di Bergamo, il 18 novembre 1892. Sin da bambino aveva un carattere vivace e volitivo. A Torino ebbe il suo primo incontro con la vita militare come allievo ufficiale nel 3º Reggimento Alpini. La Prima Guerra Mondiale segnò in modo indelebile la sua vita.

Il 23 maggio 1915, sul far della sera, con il grado di sottotenente di prima nomina, marciava al comando del III plotone della 50a compagnia del Battaglione Edolo ad occupare la Forcellina di Montozzo, organizzando subito la sua difesa. Dietro gli alpini della sua compagnia, ceffi della miglior risma bergamasca commentavano Chèl lé lè n gamba de sigur! Arda che pàss e che barbèta! .

Sin dall’inizio delle operazioni belliche su quelle cime impervie Sora dimostrò le sue qualità di alpinista e soldato. Il 21 agosto 1915 con un plotone di alpini conquistò di slancio la vetta del Torrione dell’Albiolo, guadagnandosi la prima medaglia d’argento al valore militare. Sui ghiacciai dell’Adamello, a fianco dei fratelli Calvi, Cesare Battisti e ai trentini Larcher e Mosna, fu protagonista di eroici atti di valore durante la conquista di importanti posizioni quali la Cresta Croce, il Dosson di Genova e Passo della Lobbia.

Per il coraggio, per lo spirito di sacrificio, per le sue grandi doti fisiche e morali, venne decorato con altre due medaglie d’argento al valore militare e promosso al grado di capitano per eccezionali meriti dimostrati sulle alte cime innevate dell’Adamello. Nel 1928 partecipò con un gruppo di abilissimi alpini alla storica spedizione del generale Nobile dove collaudò, senza volerlo, oltre alle sue doti di eccellente alpinista anche quelle di marinaio e di esploratore polare. La sua coraggiosa traversata sui ghiacci del Polo sino all’Isola di Foyn, alla ricerca dei dispersi del Dirigibile Italia , è rimasta memorabile nella storia delle imprese polari.

Nel 1934 promosso al grado di maggiore per alti meriti assunse il comando del prestigioso Battaglione Alpini Edolo. Uomo di azione, di assoluta concretezza, con uno stile di vita limpido e sobrio, nel 1937 venne trasferito in Africa Orientale al comando del Battaglione Speciale Alpini UORK AMBA (Monte d’Oro), allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale assunse il comando del XX Battaglione Coloniale ove guadagnò sul campo, per l’eccezionale perizia e coraggio, una medaglia di bronzo e una croce di guerra al valor militare.

Dopo sanguinosi combattimenti, fatto prigioniero dagli inglesi nell’aprile 1941, venne assegnato in un campo di prigionia ad Eldored e successivamente a Londiani in Kenia. Durante la prigionia ebbe modo di scalare la cima Nelion (5188 metri di quota) la cima più alta del gruppo del Monte Kenia, con il capitano inglese J.R.T. Pollard e il sottotenente degli alpini Olimpo Gabrioli, ottimo alpinista. Nel maggio del 1945, rientrato in Italia dalla lunga prigionia, fu inviato a comandare il Distretto Militare di Como.

Quale uomo di azione male accettò questo ultimo incarico che lo allontanava dai reparti operativi. Inviato in pensione, per sopraggiunti limiti di età nel novembre 1948, con il grado di colonnello, ancora pieno di vigore e di entusiasmo, morì improvvisamente a 57 anni, stroncato da un infarto il 23 giugno 1949, tra i filari della sua vigna mentre insegnava al figlio di un alpino a legare i vitigni con sottili rametti di salice. Animato da una carica di eccezionale vitalità, era un vero trascinatore di uomini che conquistava con il suo stile di vita semplice e il suo limpido esempio.

E’ stato un ufficiale valoroso in ogni circostanza, dotato di un alto senso del dovere e dell’onore militare, come molti eroi bergamaschi, fra i quali è doveroso ricordare i fratelli Carlo e Antonio Locatelli, i fratelli Calvi e molti altri eroici soldati. Proprio per le sue elette virtù militari e civili, anche se non ben visto da alcuni gerarchi del regime per la sua schiettezza e libertà di pensiero, nel marzo del 1928, venne scelto per comandare un gruppo di abilissimi alpini a fare di supporto alla spedizione del generale Umberto Nobile impegnato, con il dirigibile Italia , alla conquista del Polo Nord. Come è noto, il dirigibile Italia , dopo aver raggiunto il Polo Nord, mentre era sulla via del ritorno, dopo aver volato per 31 ore, veniva investito dal maltempo ed alle 10.33 del 25 maggio precipitava fra i ghiacci del Mare Artico.

Nell’urto contro i ghiacci della banchisa, la cabina di comando si staccava dalla chiglia inferiore del dirigibile e riversava sul pack dieci dei sedici componenti la spedizione. Gli altri sei uomini (Aldo Pontremoli, Renato Alessandrini, Attilio Caratti, Ettore Arduino, Callisto Ciocca ed il giornalista Ugo Lago), che in quel momento si trovavano all’interno della struttura dell’aeronave, furono portati via dal dirigibile che, sgravato del peso della cabina, fu sollevato dalle forze del vento scomparendo per sempre nel cielo artico.

La tragedia dell’Italia sui ghiacci del polo diede subito inizio alla più importante manifestazione di solidarietà umana fra le nazioni: russi, svedesi, norvegesi, finlandesi, cecoslovacchi, francesi si unirono agli italiani alla ricerca dei superstiti. Anche gli alpini, che sino a quel momento avevano assolto a compiti logistici di routine, si trovarono improvvisamente impegnati in una difficile missione di soccorso altamente umanitaria sulla New Friesland e sulla Terra di Nord Est alla ricerca dei dispersi assieme ad alcuni studenti universitari del Club Alpino Italiano (C.A.I.).

Degno di apprezzamento fu il prezioso concorso dato dagli alpini nella ricerca dei dispersi del Dirigibile Italia , mediante una serie di pattugliamenti terrestri lungo itinerari spesso difficili per la presenza di ghiaccio vivo e in presenza di bufere di vento e di temperature molto rigide. Dopo una pericolosa navigazione sulle baleniere Hobby e Braganza, tra la banchisa del mare Artico, gli alpini iniziarono le ricerche lungo la costa e all’interno del desolato territorio. Ricordo qui alcuni dei pattugliamenti più impegnativi dove presero parte gli alpini, alpinisti del C.A.I., in collaborazione con guide ed esploratori del posto.

La pattuglia costituita da Valdemar Kramer, un esperto conoscitore delle coste settentrionali dello Svalbard, dal sergente maggiore Sandrini, l’alpino Pedrotti e da Gianni Albertini e Sergio Matteoda, due giovani ingegneri ed esperti alpinisti del CAI, conosciuti in Italia e all’estero per alcune prime ascensioni nel gruppo del Monte Bianco. Partiti, il 28 maggio, da South Gat, nei pressi della Baia della Maddalena, dopo giorni di ricerche minuziose lungo la costa ghiacciata, raggiunsero Capo Flat e dopo altri due giorni di cammino toccarono la Costa di Biscayer senza trovare traccia della pattuglia Mariano e del Dirigibile.

Un’altra pattuglia al comando del capitano Sora, con al seguito il caporale Bich, gli alpini Casari e Pelissier e il cacciatore Rodolfo Svensen, dopo aver raggiunto la Baia di Mossel a bordo della baleniera Braganza, esplorava sugli sci, con marce di 12 14 ore al giorno e con uno zaino di 30 chili sulle spalle, l’interno del promontorio della New Friesland, una penisola situata fra il Fiordo di Wjide e lo stretto di Hinlopen, ove si riteneva probabile fosse caduto il dirigile. Notevoli le difficoltà ed i sacrifici affrontati dagli uomini della pattuglia che percorsero a piedi circa un centinaio di chilometri sui ghiacci.

Dopo molti giorni di silenzio, finalmente, il 10 giugno, fu captato dalla nave Città di Milano , l’S.O.S. dei naufraghi e si capì che l’aeronave era precipitata, non sulla terra ferma, bensì più ad est e più precisamente sulla banchisa al largo dell’isola di Foyn situata a nord della Terra di Nord Est. Sora, venuto a sapere della posizione dei naufraghi e in considerazione delle ricerche, sino a quel momento infruttuose degli aerei norvegesi e svedesi, che si prodigarono sino all’estremo limite, dopo essersi messo a rapporto dal comandante della nave Romagna Manoja, per avere l’autorizzazione a partire in soccorso dei naufraghi, dopo un colloquio burrascoso con Romagna, il 18 giugno venne autorizzato a partire alla ricerca della Tenda Rossa, ma senza portare al seguito gli alpini.

Nello stesso giorno della partenza del capitano Sora, si consumava una dolorosa tragedia: il grande esploratore Roald Amundsen, nel tentativo di portare aiuto ai naufraghi del Dirigibile, scompariva con il suo idrovolante Latham 47 ed i sei uomini dell’equipaggio, fra i flutti del Mare di Barents. La sua impresa fra i ghiacci del Polo Nord è rimasta leggendaria. Si mise in marcia con due slitte ed una muta di cani governata dall’olandese Van Dongen, un ragazzone di ventitre anni e con un esperto polare , l’ingegnere danese Warming, che dopo alcuni giorni, rendendosi conto di essere di peso, si fermò a Capo Platten. Raggiunto Capo Nord a bordo della Braganza , dopo aver esplorato un tratto di costa della Terra di Nord Est, si avventurò di propria iniziativa sull’insidioso pack (lastroni di ghiaccio di varie dimensioni e spessore in perenne movimento sul mare Artico) alla ricerca dei superstiti del Dirigibile Italia.

Per quasi un mese, sfidando le tempeste dell’Artico ed i crepacci, avanzò su quel Inferno bianco in direzione della Tenda Rossa del generale Nobile percorrendo oltre 400 chilometri. Non potrò mai narrare gli stenti di questa notte, di questa tappa diabolica che pareva non dovesse mai più avere termine. Mancava soltanto l’orrore dell’oscurità; gli altri c’erano tutti: la nebbia opaca e sinistra, il pericolo sempre imminente, il freddo, il sonno, la fame e la stanchezza, la fatica continua ed angosciante, il sospetto di smarrirsi, il dubbio di non poter mai e poi mai arrivare alla meta prefissa, di fallire l’impresa, di cadere prima del traguardo. Rileggendo le ultime parole tracciate ieri vedo che ho scritto che noi andavamo avanti metro a metro.

Avrei dovuto essere più preciso, palmo a palmo, quando pur non ci arrestava uno dei mille intoppi che la sorte ostile aveva accumulato sul nostro incerto cammino: canali, buche, solchi, trappole di neve, insidie di ghiacci, lastroni sfuggenti, massi precipitanti e la morte appostata ad ogni passo. Così scriveva il capitano Sora sul suo diario il 2 luglio 1928 dall’isola di Broch. Ostacolati dagli improvvisi spostamenti subiti dalla banchisa per effetto dei venti e delle correnti marine, Sora e Van Dongen, con una slitta, nove cani e un cajaco (un piccolo canotto di gomma), affrontarono ogni sorta di traversie e sacrifici, quasi sempre con i vestiti fradici d’acqua, con pochissimi viveri e senza mezzi radio. Più volte rischiarono di annegare nelle acque gelide mentre i cani impazzivano per la fatica e la paura. Sembrava umanamente impossibile andare avanti su quella spaventosa distesa di ghiaccio.

Ma Sora continuò la sua incredibile marcia. Lottando contro le ciclopiche forze della natura, i soccorritori riuscirono a raggiungere, dopo marce estenuanti, il punto preciso della Tenda Rossa ma, nel frattempo, la deriva aveva allontanato in altra zona di mare i naufraghi. Solo dopo 48 giorni di interminabile prigionia fra i ghiacci, il 12 luglio i sopravvissuti venivano salvati dal rompighiaccio russo Krassin . Sora e Van Dongen, dall’isola di Foyn, riuscirono solamente a vedere all’orizzonte un pennacchio di fumo delle due ciminiere della nave che si allontanava dal luogo del ritrovamento dei naufraghi.

Il generale Umberto Nobile, al termine dell’avventura, così telegrafò al generale Zoppi: Vostra Eccellenza può essere fiero dei suoi magnifici alpini. Capitano Sora ha dimostrato che cuore e volontà italiani possono riuscire in imprese che competenti stranieri anche espertissimi dichiararono impossibili. La traversata con slitta da lui compiuta fino all’isola di Foyn resterà memorabile nella storia delle spedizioni polari . L’impresa del capitano Sora è stata definita la più splendida e pazza avventura del secolo . Alcuni l’hanno paragonata alla marcia di Peary verso il Polo Nord, o a quella di Roald Amundsen che arrivò per primo al Polo Sud. Ma Sora dovette affrontare una situazione ben differente da quella dei due grandi esploratori polari: non aveva fatto esperienze sui ghiacci dell’Artide o dell’Antartide e nemmeno aveva avuto il tempo di prepararsi su quelle immense distese di ghiaccio.

Per comprendere la rischiosità dell’impresa di Sora ricordo quanto disse, nel marzo 1995, il grande alpinista Reinhold Messner all’indomani della rinuncia alla traversata polare dalla Siberia al Canada solo dopo due giorni di marcia sul pack: Ho avuto paura, una grandissima paura che non avevo mai provato prima. Ho avuto paura di morire. Io e Hubert ad un certo punto abbiamo pensato di non farcela, circondati da quelle torri di ghiaccio blu che si innalzavano a pochi metri da noi, ricadevano sul pack, lo frantumavano aprendo delle fenditure nella crosta . Il pack si frantumava.

E’ stato un miracolo se ho strappato Hubert dall’acqua gelida . E’ una forte testimonianza sincera e umana manifestata con grande umiltà da un uomo che ha scalato tutti gli ottomila della catena dell’Himalaia e che ci ha fatto conoscere la grandezza e il valore di questo grandissimo alpinista. Il professor Carlo Barbieri, presidente del comitato internazionale per la rievocazione delle imprese polari del generale Umberto Nobile, così si è espresso nei riguardi del valoroso ufficiale: Tutti i bergamaschi e tutti gli italiani lo ricorderanno per il suo ruolo nella vicenda polare del Dirigibile Italia del 1928, dove bisognava fare i conti con la terribile sfinge polare che non perdonava chi osava sfidarla: quella fu la sua più grande avventura fra le due guerre; lo porrà sulla ribalta internazionale, dilatando la sua immagine di alpino ben oltre il Circolo polare artico, portando per la prima volta la penna nera a 81 gradi di latitudine nord sui ghiacci dell’Artico.

L’unanime riconoscimento che venne tributato a Sora dal Grande nord per la sua coraggiosa e impossibile marcia è rimasto scritto nella storia dei grandi esploratori polari . Oggi, come ieri, gli Alpini d’Italia in armi e in congedo sono animati e guidati dal prezioso patrimonio di Valori che ci hanno lasciato i nostri padri e che sono: il coraggio, la tenacia, lo spirito di sacrificio, il senso di responsabilità, la solidarietà verso i più deboli, lo spirito di fratellanza, l’onestà, l’amore verso la Patria e la famiglia, la fede in Dio, il senso del dovere che consiste nel fare bene, ogni giorno, il proprio lavoro.

Non esiste differenza, sotto l’aspetto della disponibilità al sacrificio e della solidarietà umana, fra gli alpini in armi e gli alpini in congedo, fratelli da sempre impegnati in nobile slancio di altruismo ogni qualvolta la posta è il salvataggio di vite umane o l’aiuto tangibile ed immediato a persone che si trovano in stato di sofferenza o in difficoltà. In Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan gli alpini affrontano ogni giorno, con assoluta correttezza di comportamenti, non solo i pericoli legati alle operazioni, ma aiutano da vicino le popolazioni disperate, affamate, con gravi problemi sanitari, di istruzione e di legalità, in zone spesso desolate e devastate dalla guerra.

Gli alpini con le stellette si impegnano, spesso rischiando la vita, con elevata efficienza per alleviare le sofferenze di quelle sfortunate popolazioni, per infondere fiducia e speranza, per assicurare le basi essenziali della convivenza civile e per concorrere alla ricostruzione delle strutture civili (scuole, ospedali, asili, pozzi d’acqua). Per noi Alpini tenere sempre alti e vivi i Valori è un credo , è una filosofia di vita che viviamo nella piena consapevolezza e fedeltà alle tradizioni delle Penne Nere . A loro va la mia solidarietà e il mio affettuoso e devoto saluto di alpino.

Generale Brigata Tullio Vidulich