Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    Quei 159 superstiti del btg. L’Aquila


    Nel numero di settembre de L’Alpino a pagina 17 è riportato un brano del libro Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi. Procura ancora angoscia leggere le frasi dei ferrovieri del Brennero che incitavano gli alpini a rientrare nei vagoni e chiudere i finestrini per non farsi vedere dalla popolazione: ‘Che alpini o non alpini, vi accorgete sì o no che fate schifo?’
    Avevo dodici anni quando i resti del mitico L’Aquila rientrarono a Sulmona. Era il 2 giugno 1943, una giornata afosissima; assistevo alla sfilata confuso nella folla che assisteva muta e commossa al passaggio di quei pochissimi (erano solo 159 rispetto ai 1752 partiti assieme a 51 ufficiali, 53 sottufficiali, 376 muli!). Davanti a loro sfilava un sottotenente: era uno dei tre ufficiali superstiti dei 51 partiti. Era Giuseppe Prisco. Non facevano più ‘schifo’; avevano nuove uniformi, nuovo armamento, molti il vecchio cappello alpino e, nel volto, oltre i segni della sofferenza, la fierezza di aver tenuto fede alla tradizionale serietà e indomito spirito di sacrificio degli alpini abruzzesi (e non è retorica).
    A pagina 183 del libro di Bedeschi c’è una frase che racchiude tutta la tenacia ed il valore di cui dettero prova: ‘Quell’Aquila, non si dimentichi, che ebbe tutte le sue perdite prima della ritirata’. Molta, ma contenuta, la commozione e le lacrime, pochi gli applausi e le manifestazioni gioiose, nonostante le disposizioni politiche. Ricordo un vecchio col cappello alpino scolorito (chissà, poteva essere un reduce dell’Ortigara?) che ripeteva in continuazione ‘…hanno combattuto in Russia hanno combattuto come leoni contro i russi… hanno sofferto tantissimo…
    ma non hanno mai abbassato la testa…’. E sì, non avevano mai abbassato la testa nè davanti al nemico, nè davanti alle terribili sofferenze sopportate nella steppa, ed ora la tenevano con ottime ragioni ben dritta sul collo e la mostravano con giusto orgoglio, ma senza boria o iattanza, ai compaesani, come appare anche nella foto. Avevano fatto il loro dovere, e basta. Per loro il servizio militare non era stata una ‘tassa iniqua’.
    Poco oltre la piazza, inquadrata nella foto, la strada si restringeva quasi come un budello. In quel punto la folla ruppe il cordone della forza pubblica che teneva libero il passaggio e i reduci furono sommersi; scomparvero sotto l’abbraccio convulso di genitori, parenti, amici e gente comune che voleva stringersi a loro, portarseli a casa, quasi a risarcirli di tutto quello che avevano sofferto.
    Non so dire come sia terminato lo sfilamento. Mi allontanai per tornare a casa in un tumulto di emozioni: le stesse emozioni che provo ogni volta che guardo quella fotografia scattata nel lontano 2 giugno 1943 e riportata nei libro Alpini in Russia sul Don di Manlio Barilli, acquistato molto tempo fa in una bancarella di piazza dei Cinquecento a Roma.


    Enzo Carugno Sulmona



    Qualche idea per avere reclute dalle zone alpine


    Sono il padre di due giovani sottotenenti del Genio Alpini da poco congedati e il periodo del loro servizio mi ha dato modo di osservare da vicino i problemi della leva e del volontariato militare. Ho letto con attenzione il recente articolo del gen. Scaranari in proposito e devo dire di condividerlo abbastanza sulle esigenze di addestramento e specializzazione dei moderni reparti, che devono essere sempre al passo degli altri coi quali operano e delle situazioni nuove che si presentano.
    Probabilmente è vero che questi obiettivi è più difficile raggiungerli con la leva tradizionale. E’ anche vero però quello che va dicendo da tempo il presidente Parazzini in tutte le occasioni che gli si presentano, e cioè il rischio mortale che corrono i tradizionali valori dell’alpinità, dovuto alla partecipazione di volontari o professionisti in prevalenza reclutati in zone non montane, quindi con cultura e tradizioni molto diverse. Faccio queste affermazioni basandomi soprattutto sulle informazioni che ho raccolto attraverso i miei ragazzi, il cui entusiasmo iniziale qualche volta è stato frustrato da situazioni in cui loro malgrado si sono venuti a trovare, nonostante l’ottimo rapporto con il personale ufficiali e non dei loro reparti.
    Il problema dunque è quello di riuscire a conciliare le due opposte esigenze. Forse il compromesso esiste e consiste nel trovare una soluzione per il reclutamento che sia appetibile anche per i giovani delle zone montane, in termini sia di retribuzione che di carriera, prevedendo anche la necessaria flessibilità.
    Le ormai frequenti missioni di pace in giro per il mondo potrebbero costituire lo stimolo culturale mancante anche per le popolazioni economicamente più avanzate. Non credo che l’Italia sia diversa dal resto d’Europa o dall’America in questo senso. Queste nuove motivazioni, i tradizionali valori alpini in Patria e in missione, nonchè il forte spirito di appartenenza messi assieme, potrebbero costituire la svolta per la quadratura di questo cerchio tremendamente difficile da
    far quadrare.


    Angelo Alberti gruppo di Spiazzo (Sez. Trento)