Valanghe un’insidia da conoscere

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    Andare in montagna: le valanghe.

    di Giulio Frangioni
    (segreteria nazionale Corpo nazionale
    di soccorso alpino e speleologico)

     

    Le numerose vittime delle valanghe nei recenti fine settimana hanno fatto rimbalzare su giornali e televisioni il problema della sicurezza in montagna, come se fosse un fenomeno degli ultimi giorni connesso alle bizzarrie di questo strano
    inverno.
    Eppure le valanghe sono vecchie come le montagne, come gli uomini che le hanno abitate e che hanno dovuto bilanciare la propria esistenza con questa calamità naturale. Certo, un tempo erano ritenute un castigo divino, quindi inevitabile, e passata la tragedia spesso si dimenticava e fatalmente si ricostruiva nello stesso punto, e il dramma non tardava a ripetersi.
    Oggi una più profonda conoscenza scientifica della neve, la costruzione d’opportuni sistemi di difesa ed una maggiore cultura della prevenzione ha di fatto ridotto notevolmente i danni alle infrastrutture e salvato la vita a molte persone.
    Le statistiche degli incidenti parlano chiaro: è ormai un fenomeno sempre più connesso al tempo libero e alla fruizione sportiva della montagna, con in testa la pratica dello sci in tutte le sue manifestazioni. Nell’inverno scorso ci sono stati 18 incidenti e un totale di 27 sciatori travolti, quest’anno gli episodi valanghivi sono, per ora, 24.
    Questi dati costituiscono però solo la punta dell’iceberg perché non sono contemplati gli incidenti in cui i membri della comitiva si sono liberati da soli e non ne hanno dato notizia. È ovvio: non fa piacere a nessuno essere travolto dalla neve e che il fatto sia successivamente sbandierato ai quattro venti!
    Perché si formi una valanga sono necessari due elementi: la pendenza e la neve. Può sembrare un’affermazione scontata ma è qui che si nasconde il problema: non è un fatto stagionale poiché gli alpinisti sono travolti anche d’estate e non solo nel mese di dicembre o gennaio o dopo copiose nevicate. Di questi due fattori il primo è facilmente misurabile poiché generalmente, al di sotto ai 25 gradi, il pendio è relativamente sicuro e sopra i 45 gradi la pendenza è tale che già durante la precipitazione la neve non si accumula. L’altro elemento è ovviamente la neve che si forma nelle nubi a temperature molto di sotto allo zero ma che può depositarsi al suolo anche se il clima dell’aria è superiore di qualche grado. Il cristallo di ghiaccio, aggregandosi con altri, dà vita al classico fiocco di neve che ha un solo destino quello di tornare ad essere una goccia d’acqua. Questo processo può durare pochi secondi, poche ore, qualche giorno o diversi anni, ed è esclusivamente in funzione della temperatura. La stabilità del manto nevoso è quindi un sottile equilibrio in cui agiscono diversi fattori e molti parametri; semplificando il ragionamento si può dire che tutto ruota però attorno a caldo e freddo.
    Nella migliore delle ipotesi una nevicata omogenea su una determinata zona, cosa fra l’altro piuttosto rara, è destinata nel giro di poco tempo ad offrire scenari diversi di stabilità solo se il pendio è rivolto a sud piuttosto che a nord. Ma a mischiare le carte ci pensa un elemento molto subdolo e pericoloso qual è il vento. Già ad una velocità di 20/30 km orari esso è in grado di spostare i cristalli di neve creando zone d’erosione (i sastrugi) e aree d’accumulo, che possono essere facilmente mascherate da nuove precipitazioni.
    Il vento, soffiando verso un pendio nevoso, cattura la neve che viene sospinta oltre la cresta dove l’energia dell’aria, per un effetto fisico, diminuisce d’intensità facendo ricadere i cristalli rovinati meccanicamente dagli agenti eolici. Modificazione meccanica che compatta il manto nevoso ma non lo lega con gli altri strati presenti al suolo.
    Nasce così un lastrone di neve duro, fragile come una lastra di vetro, per nulla elastico e in grado di frantumarsi se sollecitato in qualunque punto. L’unico indizio di questo lavorio nascosto è la cornice che si protende dal crinale di cresta verso
    il sottostante pendio sottovento e che, ad un occhio esperto, non dovrà passare inosservato. Il grosso guaio è che il vento, pur soffiando da direzioni precise, a causa dell’orografia delle montagne, lavora su tutti i quadranti e quindi dopo giornate di forte turbolenza i lastroni sono dappertutto e non necessariamente solo di grosse dimensioni. Anche una piccola valanga di 10 metri di lunghezza per 10 di larghezza (la dimensione di un appartamento piuttosto piccolo) e lo spessore di 50 cm con un peso specifico medio di 300 chilogrammi al metro cubo, aggiunge le 15 tonnellate, più che sufficienti per stritolare una persona che si trovasse nel mezzo di questa massa in movimento. Per muoversi in montagna è necessario conoscere a fondo l’ambiente e valutare prima della gita l’itinerario prescelto, consultando guide, manuali o persone più esperte. E’ necessario avere chiara la situazione meteorologica non solo del giorno dell’escursione, ma anche dei periodi precedenti per capire cosa succede sul terreno. Altrettanto vitali sono poi le informazioni del bollettino del pericolo valanghe, che si basa su una scala di 5 valori concordata a livello europeo.
    Quando finalmente si raggiunge la zona dedicata all’escursione ci aspetta il compito più arduo: stabilire a grandi linee la nostra traccia, che va spezzettata in tante altre micro tracce quanti sono ad esempio i cambi di pendenza, quelli di versante, le condizioni del manto nevoso e l’orografia del terreno. Un lavoro non facile ma dal quale dipende la nostra sicurezza, la nostra vita, una bella giornata o una tragedia.
    Queste conoscenze non s’improvvisano ma vanno acquisite con il tempo e la calma affidandosi a persone più esperte, a Guide Alpine professionalmente preparate o frequentando gli appositi corsi organizzati dal Club Alpino Italiano.
    La neve non è solo materia per una ristretta cerchia d’adepti; esistono buone pubblicazioni facilmente consultabili, ma forse l’esercizio principale e che pochi fanno è quello di conoscerla a fondo. Non nel senso letterale del termine, ma nella sostanza con una buona pala, scavando sino al terreno per formare un muro verticale sul quale poter analizzare i vari strati, vedere i cristalli (basta una lente con meno di dieci ingrandimenti), e leggere come in un libro aperto la storia delle ultime nevicate e perché uno strato di neve non ne vuole proprio sapere di stare sopra all’altro.
    Dalle gite più elementari, alle ascensioni più impegnative, non deve mai mancare nello zaino la pala, la sonda e l’A.R.V.A., uno strumento a onde elettriche e sonore, tre strumenti indispensabili, complementari e singolarmente inutili. Localizzare velocemente un travolto e poi impiegare due ore e mezzo per scavare con le mani un metro cubo di neve non ha nessun senso, quando sotto una valanga il tempo è tutto.
    Per una persona completamente sepolta e ovviamente in assenza di lesioni, ci sono 92 probabilità su 100 di essere trovata in vita entro un quarto d’ora dall’incidente. Probabilità che scende drasticamente al 32 entro i successivi quindici minuti, (entro la prima mezz’ora); numeri che diminuiscono ancora al 20 dopo tre quarti d’ora. I compagni in questa fase sono tutto. Poi potranno intervenire le squadre del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (C.N.S.A.S.), ma questa è un’altra storia.